Max von Sydow (O Globo)

E’ morto ieri, domenica 8 marzo, a Parigi, l’attore teatrale e cinematografico Max von Sydow (Carl Adolf all’anagrafe, Lund, 1929), uno di quegli interpreti la cui semplice presenza scenica, volto spigoloso, statura notevole, voce profonda, appariva idonea a conferire una significativa pregnanza ai ruoli in cui si trovava a recitare, come testimoniano buona parte delle ultime prove cinematografiche, spesso lontane dai ruoli intensi, tormentati, avvolti da un’aura ieratica, che ne fecero uno dei simboli del cinema di Ingmar Bergman, a partire dal giovane crociato Antonius Block in Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, 1957), volto a personificare metaforicamente il percorso di ogni essere umano all’interno dell’esistenza, ingaggiando una partita a scacchi con la Morte.
Un viaggio che andrà a realizzarsi tanto esteriormente, l’acquisizione  delle umane debolezze e il fronteggiarle strenuamente, anche lottando per cause in cui non si crede profondamente o che lasciano il senso di aver combattuto invano, quanto interiormente, alla ricerca di un minimo di conforto che possa essere concesso anche dal non credere, assunto come stile di vita, o dalle astratte sicumere della scienza. Il cavaliere giungerà infine alla percezione del “silenzio come voce di Dio”: tante domande ma nessuna risposta, se non quella costituita dalla quotidiana ritualità all’interno di un mutabile palcoscenico, dove la condivisione degli umani affanni diviene l’ago della bilancia nella presa di posizione definitiva, volta a declamare tanto la propria umanità quanto quella necessità d’assoluto che potrebbe già appartenere a ciascuno di noi o essere semplicemente desiderata:“Lo ricorderò, questo momento: il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte, i vostri visi colti su cui discende la sera, Michael che dorme sul carro, Jof e la sua lira…Cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si può versare, e sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere”.

Sydow ne “Il settimo sigillo” (Pinterest)

Prima della descritta interpretazione l’attore svedese (naturalizzato francese) aveva debuttato sul grande schermo nel 1949 con Bara en mor (Solo una madre), cui seguì due anni più tardi Fröken Julie (La notte del piacere), entrambi per la regia di Alf Sjöberg, piccole parti mentre frequentava il Kungliga Dramatiska Teatern (Teatro drammatico reale) di Stoccolma.
Una volta diplomato, oltre al cinema si dedicò anche al teatro, conoscendo Bergman allo Stadsteater di Malmö, di cui il cineasta era al tempo direttore. Iniziava così il profondo sodalizio fra i due, che proseguì, dopo il citato Det sjunde inseglet, con Smultronstället (Il posto delle fragole, 1957), Ansiktet (Il volto, 1958), Nära livet (Alle soglie della vita, 1958), Jungfrukällan (La fontana della vergine, 1959), Såsom i en spiegel (Come in uno specchio, 1961), Nattvardsgästerna (Luci d’inverno, 1963), Vargtimmen (L’ora del lupo, 1968), Skammen (La vergogna, 1968), En passion (Passione, 1969), Beröringen (L’adultera, 1971). Tutte opere in cui von Sydow ebbe modo di plasmare un suggestivo tutt’uno fra carismatica corporeità e dolente interiorizzazione dei malesseri esistenziali nell’interpretare i vari personaggi all’interno dei titoli citati, così come in altri film diretti sempre da registi svedesi, per esempio Älskarinnan (L’amante, Vilgot Sjöman, 1962), anche se dopo l’esordio hollywoodiano nel 1965 con lo spettacolare e convenzionale adattamento dei Vangeli canonici The Greatest Story Ever Told (La più grande storia mai raccontata, George Stevens), dove, all’interno di un cast “all stars” (Charlton Heston, Telly Savalas, Martin Landau, Donald Pleasance, John Wayne, fra gli altri) rivestì la tunica di Gesù, von Sydow preferì concentrarsi sulle produzioni internazionali.

Sydow ne “La più grande storia mai raccontata” (Pinterest)

In tale ambito la sua poliedricità andò a circoscriversi all’interno di ruoli secondari, ma sempre sprigionando un certo magnetismo, ricordando al riguardo soprattutto l’impassibile killer Joubert in Three Days of the Condor (I tre giorni del Condor, Sydney Pollack, 1975, adattamento del romanzo Six Days of Condor scritto da James Grady nel 1974) e l’anziano prete cattolico Lankester Merrin in The Exorcist (L’esorcista, 1973, William Friedkin, dall’omonimo romanzo, 1971, di William Peter Blatty, che ne scrisse la sceneggiatura), interpretato anche nel seguito Exorcist II: The Heretic (L’esorcista II: l’eretico, John Boorman, 1977).
Se in molti titoli successivi, riprendendo quanto scritto ad inizio articolo, von Sydow ha inteso giocare con l’ormai rodato carisma, quasi relegandosi, scusate la cattiveria, nella parte di un iconico post-it, in altri invece ha esternato un rinnovato smalto interpretativo ed al riguardo mi piace ricordare in chiusura opere autoriali quali La mort en direct (La morte in diretta, Bertrand Tavernier, 1980), Hannah and Her Sisters (Hannah e le sue sorelle, Woody Allen, 1986); Bis ans Ende der Welt (Fino alla fine del mondo, Wim Wenders, 1991), la ripresa delle collaborazioni col cinema svedese (Pelle erobreren,  Pelle alla conquista del mondo, 1987, e Den goda viljan, Con le migliori intenzioni, 1991, entrambi di Bille August) e quelle col cinema italiano (Cadaveri eccellenti, 1976,  Francesco Rosi; Cuore di cane, 1976, Alberto Lattuada, Il deserto dei Tartari, 1976, Valerio Zurlini; Gran bollito, 1977, Mauro Bolognini; Mio caro dottor Gräsler, 1990, Roberto Faenza; A che punto è la notte, 1995, Nanni Loy).

“I tre giorni del Condor” (Medium)

 

Una replica a “Max von Sydow (1929-2020)”

  1. Avatar Antonio Falcone
    Antonio Falcone

    L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.

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