Considerato il film simbolo del neorealismo, Roma città aperta venne realizzato da Roberto Rossellini due mesi dopo la liberazione della capitale, in condizioni precarie, usando pellicola scaduta, girando per lo più in mezzo alla strada o in teatri di posa improvvisati, vista l’inagibilità di Cinecittà ; in origine doveva essere un semplice documentario su Giuseppe Morosini, un prete fucilato a Roma dai nazisti nel ’44, ma in seguito divenne, su soggetto di Amidei e Consiglio e sceneggiatura di Fellini, Amidei e Negarville, nonché dello stesso regista, una storia di più ampio respiro, nella quale convergono vari accadimenti intrecciati tra loro.
La vicenda si svolge a Roma durante il periodo dell’occupazione tedesca, in attesa dell’arrivo degli alleati: Manfredi(Marcello Pagliero),capo di un movimento della Resistenza, sfugge ad una retata nazista e si rifugia presso la casa di Francesco (Grandjacquet), tipografo antifascista, che sta per sposarsi con Pina( Anna Magnani), vedova e con un figlio; viene aiutato a mettersi in contatto con i partigiani da don Pietro ( Aldo Fabrizi ), che collabora con loro. Durante una perquisizione dello stabile, Francesco viene arrestato, suscitando la reazione di Pina, che senza alcuna pietà verrà falciata dai mitra dei nazisti sotto gli occhi del figlio. Francesco riesce a scappare e a rifugiarsi insieme a Manfredi a casa di Marina( Maria Michi).La donna, che aveva avuto in passato una relazione con Manfredi, lo denuncia alla Gestapo. Manfredi viene dunque arrestato insieme a don Pietro:il primo morirà dopo orribili torture e il secondo verrà fucilato.
Secondo la critica dell’epoca lo stile di Rossellini non appare ancora ben definito: essendo ancora vincolato ai tradizionali canoni della commedia e del melodramma vi sarebbe in lui più l’istinto che la coscienza della novità; dove però riesce a svincolarsi da tali sovrastrutture ecco imporsi, dopo anni di retorica ed ipocrisia fascista, la vitale irruenza di una visione della realtà non artefatta, spietatamente documentata nel suo stato attuale,che, senza filtri o artifici, riesce a raggiungere livelli di pathos altissimi ( la straziante uccisione di Pina; la commovente e composta esecuzione di don Pietro).
Il regista vuole rivolgersi all’umanità nel suo insieme, non gli preme rappresentare un conflitto tra etnie, bensì la lotta di singoli individui alle prese con la propria coscienza e la propria morale, perché, come dice don Pietro prima di essere fucilato, “Non è difficile morire bene, difficile è vivere bene.”; Grand Prix al Festival di Cannes del ’46 e nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, è un film sempre coinvolgente e commovente, grazie anche alle straordinarie, intense, interpretazioni della Magnani e di Fabrizi, che aiuta a mantenere vivo il ricordo su un periodo storico del nostro paese, portando via le nebbie di facili revisionismi e calcolati oblii.