Il fiume rosso (Red River, 1948)

(Filmsite.org)

Agosto 1851, Saint Louis, America. Thomas Dunson (John Wayne) lascia la città insieme all’amico Nadine Groot (Walter Brennan), per unirsi ad una carovana di pionieri diretta in California. Una volta raggiunto il confine settentrionale del Texas, Dunson manifesta l’intenzione di staccarsi dal gruppo, deciso ad attraversare il Red River così da procedere verso sud ed iniziare in quelle terre la sua attività d’allevatore di bestiame, promettendo alla donna amata, Fen (Coleen Grey) che una volta fatta fortuna la manderà a chiamare, offrendole in dono un bracciale appartenuto alla madre. Nel corso della notte il convoglio subisce l’attacco dei nativi americani, che poco dopo concentreranno le loro attenzioni verso Dunson e Groot, i quali riusciranno a respingerli, notando con profondo dolore come al polso di uno degli uccisi vi sia quel monile regalato qualche ora prima a Fen, intuendone così la morte. Il mattino dopo i due incontrano l’unico sopravvissuto all’assalto, un ragazzino, Matthew Garth (Mickey Kuhn): Dunson decide di adottarlo ed il terzetto si mette quindi in viaggio verso il Texas, proseguendo fino a nord del Rio Grande, individuando infine la zona adatta a dar vita all’allevamento di bestiame, uno sconfinato terreno di cui Dunson prenderà possesso senza tanti complimenti, facendo fuori brutalmente uno dei dipendenti del proprietario intervenuto per intimargli di sloggiare da quei poderi “avuti da Don Diego su concessione del re di tutte le Spagne”: “l’ha presa da chi l’aveva prima, agli indiani, ed ora io la prendo a lui…”.

John Wayne e Walter Brennan (Deep Focus Review)

Quattordici anni (e molte croci) dopo, il rude cowboy è proprietario ormai di ben 10mila capi di bestiame, destinati alla vendita. Per ottenere un guadagno adeguato, causa la crisi economica conseguente alla Guerra Civile che attanaglia soprattutto gli stati del Sud, occorrerà intraprendere un lungo viaggio verso nord, attraversando la pista Chisholm fino a raggiungere la stazione ferroviaria di Sedalia, nel Missouri. Durante il tragitto difficoltà ed inconvenienti non mancheranno, esasperando gli animi dei componenti la carovana: la prepotente risolutezza di Dunson li porterà infine a ribellarsi, lasciandolo solo a covare rancore e meditare vendetta, affidandosi quindi a Matthew (Montgomery Clift) per procedere lungo un sentiero differente, così da giungere ad Abilene… Primo dei cinque western diretti da Howard Hawks, regista estremamente poliedrico, la cui abilità si è profusa con una certa disinvoltura in vari generi cinematografici infondendovi il proprio personale tocco, tra perfezione formale e rispetto per la sceneggiatura, Il fiume rosso, scritto da Borden Chase e Charles Schnee sulla base di un racconto di quest’ultimo (The Blazing Guns of the Chisholm Trail, pubblicato a puntate su The Saturday Evening Post tra la fine del 1946 e il 1947), è un film il cui iter narrativo abbraccia certo l’iconografia tradizionale propria del genere, ammantando d’epicità il mito della frontiera nello svilupparsi attraverso il racconto di Groot nel leggere un taccuino giornaliero, innestando però al suo interno stilemi di stampo melodrammatico e toni introspettivi.

Wayne e Coleen Grey (IndieWire)

La regia di Hawks si concentra su pochi movimenti di macchina, lascia che l’azione si sussegua una sequenza dopo l’altra sfruttando in particolare, tra amicizia virile e conflitti edipici, la contrapposizione di due personaggi, Dunson e Matthew, l’uno coltivante il desiderio di rinvenire nel figlio una sua proiezione, ideale replica della propria personalità che ne perpetui dunque il nome una volta che lui non ci sarà più, l’altro intento a trovare una sua personale affermazione, al di là dell’ombra paterna, ricerca che comporterà, simbolicamente, l’eliminazione del genitore, trovandomi d’accordo al riguardo con quanto scritto nella sua recensione dal critico Roger Ebert. Ne Il fiume rosso Wayne mette in luce qualità attoriali ora più definite nell’interpretare un uomo che si rende simbolo della “conquista del West” nella sua forma più primigenia, eroica e violenta al contempo: energico, cocciuto, intransigente, dispotico, mano svelta a far uso delle pistole ed una morale del tutto personale se non ambigua nella sua visione di ragione e torto, assolvendosi da sé fra un requiescant ed una cristiana sepoltura. Lo vediamo anche mutare fisicamente, segnato dalla fatica certo, ma soprattutto dai rovelli interiori, compensati dal frequente ricorso al whiskey: se nelle sequenze iniziali la sua corporatura massiccia si staglia in tutta la sua possanza nelle inquadrature, nel corso della narrazione il passaggio degli anni viene evidenziato non solo dall’ingrigirsi dei capelli, ma anche dai modi ancora più ruvidi e sgraziati volti ad esternare il proprio egocentrismo. Clift, qui al suo secondo film, rappresenta invece i tempi che cambiano, giovane uomo dal fisico esile, fondamentalmente mite ma comunque risoluto, poco incline al riguardo ai metodi violenti, pur essendo piuttosto abile con la pistola, permeato di un’adamantina onestà.

Montgomery Clift e Joanne Dru (Deep Focus Review)

Ulteriore contrapposizione, poi, la si rinviene nei differenti stili recitativi, quello più istintivo proprio di Wayne e l’altro basato sul metodo coltivato da Clift, che contribuisce a conferire ulteriore anima alla narrazione. Fra le sequenze più belle, certamente da citare la partenza notturna della mandria, dove la palpabile tensione va a stemperarsi nel via dato da Matthew su invito paterno e replicato dai cowboy, un incalzante susseguirsi di primi piani esaltato dal montaggio di Christian Nyby (viene mostrata ne The Last Picture Show,1971, Peter Bogdanovich), insieme a quella, palpitante di tensione e mistero, relativa al guado del Red River (appare in Bellissima, 1951, Luchino Visconti), senza dimenticare l’alternarsi di campi e controcampi che preannuncia la scazzottata fra Dunson e Matthew, simbolicamente sedata dall’intervento di Tess (Joanne Dru), ragazza conosciuta da entrambi durante il tragitto ed innamorata, ricambiata, del secondo, che viene così a personificare il necessario ordine nell’ambito della nascita di una nuova civiltà, “le passioni selvagge in un modo o nell’altro dovranno essere incanalate nell’alveo della legge o quanto meno di quella comune convivenza che in America è normalmente la donna a incoraggiare e persino personificare” (Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, 2004, Editrice Il Castoro). Rimarchevoli la fotografia in bianco e nero di Russel Harlan, che accentua il realismo proprio del film, girato per lo più in esterni, e il commento musicale di Dimitri Tiomkin, con la canzone Settle Down (testo di Frederick Herbert) presente nei titoli di testa e variamente modulata nel sottolineare determinati accadimenti (successivamente il musicista l’adattò, con un nuovo testo di Paul Francis Webster, per Rio Bravo, 1959, ancora Hawks alla regia, My Rifle, My Pony, and Me). Richard Michaels nell’88 ne girò un remake, destinato alla televisione, con James Arness nei panni di Dunson e Bruce Boxleitner in quelli di Matthew.


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