Un teatro di posa a fare da set, la stessa regista, Anne Odell, visual artist svedese, a rendersi simbolo di un determinato modello femminile, atteggiamenti disinvolti e mentalità aperta, adattabile alle circostanze, mentre l’attore svedese Mkael Persbrandt è chiamato a rappresentare un iconico “maschio alfa”, contornati poi da altri sei attori scandinavi (Trine Dyrholm, Jens Albinus, Vera Vitali, Shanti Roney, Sofie Grabol, Thure Lindhart) che andranno a costituire altrettanti alter ego dei due protagonisti, esternandone emozionalità e stati d’animo nell’incorrere in vari accadimenti legati alla propria vita e ai rapporti con gli altri, riflettendo quindi sull’esistenza già vissuta, quella attualmente in corso e quella anelata. Inoltre vi è la presenza di uno psicologo per ciascuno dei protagonisti, col compito di offrire un minimo di elaborazione a quel che succede nel corso delle riprese. “La differenza tra la vita e un copione cinematografico è che il copione deve avere un senso” sosteneva Humphrey Bogart, ma nel caso di X & Y- Nella mente di Anna ambedue sembrano rincorrersi reciprocamente alla ricerca di un qualsiasi significato, quest’ultimo da conferire essenzialmente all’idea d’identità, propria di un essere umano in quanto tale, al di là della caratterizzazione sessuale spesso frutto di condizionamenti sociali. Ecco allora che all’interno di uno spazio del tutto chiuso al mondo esterno, una sorta d’irreale realtà da reality show, le persone appaiono spogliate del bozzolo della “normalità” imposta dalle convenzioni e dalla logica dell’apparire, termine che cela le vestigia di un’artefatta dimensione sociale, tanto da poter essere definita “una brutta parola”, come sottolineava la nonna resa con realistico disincanto e sorniona ironia da Ilaria Occhini in Mine vaganti (Ferzan Özpetek, 2010).

Mkael Persbrandt ed Anne Odell (Cinecittà News)

In tal ambito anche il termine “diversità” non sarà quindi considerato come una scriminante, bensì quale valore aggiunto di una concreta eguaglianza, che in essa attinge per assurgere a pilastro portante di una necessaria umanità. Quest’ultima d’altronde spesso vaga smarrita nei meandri labirintici di un presunto moderno efficientismo, l’illusorietà a lungo coltivata e ricercata della perfezione assoluta, tanto nell’aspetto fisico quanto negli atteggiamenti esistenziali esternati nei confronti di noi stessi e con quanti ci andiamo a confrontare lungo il nostro quotidiano percorso. Nella ricercata sovrapposizione fra finzione e realtà delineata dalla regista, dove la sceneggiatura sembra prendere forma gradualmente, sulla base del lavoro svolto giornalmente in studio, ma nel cui apparente divenire potrebbe anche nascondere una raffinata costruzione propria di un dramma psicologico “alla svedese”, dove le persone appaiono sopraffatte dalla loro emozionalità e svuotate della loro funzione sociale, i termini “diversità” e “normalità” non fungono più da scriminante, bensì confluiscono insieme all’interno di una conclamata compiutezza, essere se stessi e poterlo esprimere, abbattendo gli spessi muri del pregiudizio, intendendo infine l’amore, anche nella sua corporeità, quale sentimento incline a sostenere una felicità del tutto personale, libera da pastoie moraliste e vacuamente perbeniste.

Trine Dyrholm ed Anne Odell (Movieplayer)

Un appagamento proprio di quanti riescono a voler bene dapprima a se stessi e poi, di conseguenza, agli altri, in nome dell’accettazione reciproca di quel che si è, senza tener conto di ciò che possa apparire agli occhi di quanti non mancheranno di apporre etichette o esternare stravaganti denominazioni, contrapponendo all’ostentata normalità di cui si è scritto nel corso dell’articolo quella differenza che ciascuno di noi può facilmente coltivare nel corso del proprio viaggio terreno nello scegliere liberamente il proprio appagamento esistenziale, qualunque sia la nostra condizione sentimentale. Andando a concludere, X&Y- Nella mente di Anna è una realizzazione certo interessante nella sua combinazione di documentario, teatro, esperimento sociale e performance artistica: Odett gioca molto sull’autoironia per mettere a nudo se stessa come artista e come donna, andando dunque a visualizzare sia un confronto mai sterile fra arte e vita, sia, nel solco di tale scia, argute riflessioni su cosa debba intendersi quando si parla d’identità sociale, su come percepiamo la nostra immagine nel confrontarci con gli altri e come sia percepita da questi ultimi nel paragonarla alla loro, sfruttando, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, una rincorsa fra realtà e finzione, sparigliando al riguardo le carte sul tavolo, il tutto alla ricerca, si spera condivisa, della soluzione atta a svelare il grande enigma del cuore e della mente, citando e parafrasando le ultime parole dell’anziano clown Calvero (Charlie Chaplin, Limelight, 1952).

Già pubblicato su Lumière e i suoi fratelli-Cultura cinematografica e crossmedialità

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