Lunedì 11 gennaio è scomparso ad 89 anni uno dei registi simbolo del cinema francese, Eric Rohmer, pseudonimo di Jean-Marie Maurice Scherer, laureato in letteratura francese ed ex professore di liceo, raffinato intellettuale, il più colto di quei giovani futuri registi, destinati a lasciare un segno nella cinematografia mondiale, che all’inizio delle pubblicazioni della rivista Cahiers du cinema, nel ’51, si riunirono intorno al critico Andrè Bazin, per criticare il cinema commerciale e la rigida struttura produttiva che in Francia non dava possibilità d’esordio a quanti non si piegassero alle leggi del mercato.
Tutti erano accomunati da un giudizio fortemente indipendente, un notevole bagaglio culturale filmico e dalla volontà di dar vita ad una profonda trasformazione del cinema francese, far fuori l’accademismo ereditato dagli anni 30 per nuovi modelli di riferimento, tra i quali Rossellini: la macchina da presa torna nelle strade, si riprende contatto con la realtà, abbandonando l’artificio degli studi cinematografici, cercando attori nuovi che potessero rendere autentici i personaggi interpretati, affrancandosi dai vincoli della sceneggiatura, con una fotografia vicina al documentario ed una illuminazione il più possibile simile alla luce naturale.
Nasceva la Nouvelle vague e la “ politica degli autori”, i diritti dell’autore-regista, padrone del linguaggio cinematografico e quindi creatore del film. Rohmer esordisce nel’59, con Le signe du Lion, ambientato in una Parigi deserta sotto il solleone d’agosto, in cui si aggira smarrito e disperato, ormai quasi un clochard, un giovane musicista americano senza più un soldo: sarà il caso ( deus ex machina che sarà una costante delle sue opere) a fare irruzione improvvisa nella sua vita, trasformandola.
Comincia ad essere apprezzato dagli spettatori a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, quando attira l’attenzione con La collezionista (La collectionneuse, ’67), che ha per protagonista un’ adolescente alquanto disinibita alla caccia di conquiste maschili, tema ardito per l’epoca, film facente parte della serie dei “Racconti morali”, che si ricollega alla tradizione dei moralisti della letteratura francese, dando vita ad un cinema equamente diviso tra cervello e cuore, senza mai dare la sensazione di costruire alcunché, ma con una soave leggerezza di fondo che scaturisce, allo stesso tempo celandole, da scelte registiche sapientemente ben orchestrate.
Sono storie quelle di Rohmer dove l’azione si riduce all’ essenziale, i suoi sono personaggi che riflettono abbondantemente sui propri sentimenti prima di agire, analizzano, costruiscono varie ipotesi e congetture, in particolare risultano ben delineate le figure femminili catturate nella loro prima giovinezza, a prima vista timorose nell’affrontare la vita e le sue problematiche, ma spesso raffinate seduttrici capaci di surclassare uomini che non sanno capirle fino in fondo (La mia notte con Maud, ’69, Il ginocchio di Clara, ’70).
Riesce ad affermarsi su un piano internazionale, pur mantenendo la sua proverbiale riservatezza, grazie al Premio della Giuria al Festival di Cannes del ’76 per La marchesa von…, raffinata trasposizione letteraria (Kleist), una delle opere maggiormente entrata in sintonia con il grande pubblico, insieme a Il raggio verde, Leone d’oro a Venezia nell’86, che gli conferirà nel 2001 quello alla carriera. Questa, a grandi linee, giusto per ricordarne l’importante figura, la carriera del maestro francese (il suo ultimo film, Gli amori di Astrea e Celadon è del 2007), abile dissimulatore di semplicità che si fa complessità e viceversa, in un affascinante gioco degli specchi sospeso tra rigore e aggraziata levità.





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