La figura del licantropo, uomo lupo o lupo mannaro, risale a vecchie leggende (come quella di Licaone, propria dell’antica Grecia), che ne fanno una figura dolente, colpita da una tremenda maledizione, sospesa tra ferinità ed umanità. I suoi archetipi, oltre che nel folklore, sono rinvenibili, curiosamente, nella cinematografia. Dopo la prima apparizione(muto a parte) di un lupo mannaro ne Il segreto del Tibet (Werewolf of London, ’35 di S. Walker), dallo scarso successo, la Universal si rivolse a Curt Siodmark, ebreo in fuga dalla Germania nazista, per una nuova sceneggiatura sulla figura del mostro, cui diede inedite connotazioni.

Nacque così, nel ’41, The Wolf Man, regia di George Waggner. Una voce fuori campo legge da un libro i sintomi della licantropia, oscure storie e strani avvenimenti avvenuti nel Galles, intorno alla tenuta di Sir John Talbot (Claude Rains), il cui figlio Larry (Lon Chaney Jr.) è tornato a casa dopo un soggiorno in America. I rapporti tra i due in passato sono stati tesi, ma il dolore per la morte del primogenito durante una battuta di caccia, li riavvicina.

Larry conosce una ragazza, Gwen (Evelyn Ankers), e con questa e la sua amica Jenny si reca una sera presso un accampamento di zingari, per farsi predire il futuro. Ma lo zingaro Bela (Lugosi) che legge la mano di Jenny, non è altri che un licantropo e l’aggredisce. Larry l’uccide con un bastone dal pomo di argento, ma viene morso sul petto: contagiato, si trasformerà in lupo al primo plenilunio, costretto ad uccidere in preda alla sua natura selvaggia, e solo la morte porrà fine al suo tormento.

Più che la regia è la sceneggiatura il punto di forza del film:Siodmark conferisce alla storia il tono proprio della tragedia greca classica, con il protagonista oppresso da un destino cui non riesce ad opporsi, esorcizzando il terrore del secondo conflitto, con riferimenti alla religione ebraica, come la stella a cinque punte che connota il licantropo e che lui stesso vede nelle sue prossime vittime, evidenziando la diffidenza verso chi viene a contatto con una realtà consolidata che non accetta diverse culture (gli zingari) o innovazioni (Larry viene guardato con sospetto dagli abitanti del luogo, causa la sua trasferta in America).

Il resto lo fa l’abile trucco opera di Jack Pierce, la trasformazione in dissolvenza, la musica tritonale (nel medioevo simbolo di Satana), l’eleganza recitativa di Rains, che rappresenta la parte razionale, e la grande interpretazione di Chaney, perfetto nel rappresentare l’uomo qualunque soggetto ad un’atroce condanna, anelante verso la liberazione dall’opprimente dicotomia uomo-bestia, essendosi quest’ultima ibridata con il primo, come ben evidenzia il dittico di cui è autore sempre Siodmark, leitmotiv dell’intero film: “Anche un uomo puro di cuore che recita ogni sera le sue preghiere può divenire un lupo quando l’aconito è in fiore e la luna piena d’autunno splende luminosa”.

Una replica a “L’uomo lupo (The Wolf Man, 1941)”

  1. […] Siodmark, sceneggiatore del film The Wolf Man, L’uomo lupo, 1941, regia di George Waggner, con Lon Chaney jr. nei panni, e nel pelo, grazie a Jack Pierce, di […]

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