Arthur Penn, regista americano non sempre annoverato nel novero dei “grandi”, come avrebbe certamente meritato, è morto nella notte tra martedì 28 e mercoledì 29 settembre a New York.A darne la conferma al New York Times online il suo amico Evan Bell. Il giorno prima aveva compiuto 88 anni.

Attraversando un po’ tutti i generi cinematografici, dal western al gangster movie, Penn li ha di volta in volta reinterpretati e riletti alla luce dell’originalità e dell’indipendenza, riuscendo, senza comunque alcuna furia distruttiva, a far emergere limiti e contraddizioni tanto di una cultura che di una società; ha in pratica, mettendo al centro della sua personale poetica il potere del regista nel final cut e dando rilievo alla fisicità degli attori come mezzo per trasmettere emozioni, aperto la strada ai Movie brats, quei registi (De Palma,Coppola, Spielberg, Scorsese) che all’inizio degli anni ‘70 contribuirono alla nascita della “nuova Hollywood”.

Dopo i brevi trascorsi come attore teatrale (ha studiato presso l’ Actor’s Studio di Lee Strasberg), lavora dapprima come regista televisivo, debuttando poi nel ’58 con la sua prima regia teatrale, Two For The Seesaw, mentre nello stesso anno l’esordio sul grande schermo (Furia selvaggia-Billy The Kid, protagonista Paul Newman), passa senza tanto clamore. Occorrerà attendere il ’62 per il grande successo, con Anna dei miracoli, commedia di William Gibson che aveva già portato in teatro e in tv: la prima di tre nomination all’Oscar (le altre due per Bonnie and Clyde e Alice’s Restaurant) tutte non confluite nell’assegnazione definitiva, mentre la statuetta va ad Anne Bancroft e a Patty Duke, nei ruoli rispettivamente di istitutrice ed allieva cieca e sordomuta.

Dopo Mickey One, ’65, sin troppo debitore della francese Nouvelle Vague, con evidenti riferimenti a Godard e Truffaut, dei quali era profondo estimatore, e La caccia, ’66, grande prova di recitazione di Brando e Redford per un film molto duro, purtroppo devastato dai tagli della produzione, che scopre i fantasmi di certa provincia americana, un’altra grande prova e notevole successo di pubblico, il bellissimo Gangster Story, ’67, Bonnie and Clyde il titolo originale, con Warren Beatty e Faye Dunaway.

E’ una violenta e lirica ballata, tra passione, sangue, sentimento, con i due rapinatori sullo sfondo della Grande Depressione che diventano moderni antieroi, facendo da specchio nella loro infelicità mista a ribellione, nel loro farsi scudo dell’invincibilità pur non illudendosi sulla vittoria, anzi ben consci di un sicuro fallimento, alle inquietudini nascenti dei tanti giovani che non si riconoscevano più nei valori dei padri. Indimenticabile il finale, dove Penn usa il ralenti con una certa preveggente originalità: quattro macchine da presa, che lavorano, rispettivamente, a velocità normale, doppia, tripla e quadrupla.

Probabilmente il suo film più famoso resta sempre Piccolo grande uomo, ’70, protagonista Dustin Hoffman, epico e coinvolgente, che, pur con un occhio volto alla spettacolarità, rilegge criticamente la “conquista del West” e gli eccidi perpetrati contro i nativi, delineando lo smarrimento d’identità dell’uomo medio americano, ben visualizzato nel peregrinare continuo di Jack Crabb-Hoffman tra la civiltà dei “bianchi”, cui appartiene per nascita, e quella degli indiani Comanche, cui invece appartiene per formazione e cultura.

Da ricordare Alice’s Restaurant, basato su una ballata di Arlo Guthrie, qui protagonista, che anticipa il clima carico di disillusione proprio degli anni ’70, il noir del ’75 Bersaglio di notte, con Gene Hackman nei panni di un investigatore alle prese con il Caos della realtà, e il classico canto del cigno rappresentato da Gli amici di Georgia, ’81, la vita di alcuni immigrati nell’ America degli anni ’60, ulteriore demitizzazione del classico american dream.

Costretto dall’urgenza propria di un’industria filmica che guarda sempre più agli alti incassi piuttosto che ad una libera autorialità, ormai vista con sospetto, Penn negli ultimi anni si dedica al cinema non certo con l’entusiasmo di un tempo, preferendo declinare il suo genio in spettacoli off- Broadway, oltre che insegnare all’ Actor’s Studio. Un grande uomo, un piccolo grande regista.

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