Mettete insieme un valido regista pressoché esordiente, Mike Nichols, al suo secondo film dopo Chi ha paura di Virginia Woolf, famoso soprattutto per la regia di rappresentazioni teatrali, e un attore, Dustin Hoffman, proveniente dall’ Actor’s Studio, all’epoca sconosciuto e da qui in poi divo, simbolo per antonomasia dell’antieroe.

Aggiungetevi il fascino estremamente sensuale di Anne Bancroft, la fresca spontaneità di Katharine Ross, le musiche di Simon & Garfunkel, ed ecco visualizzato, tra adattamenti e modifiche (sceneggiatura di C. Willingham e B. Henry), l’efficace romanzo di Charles Webb, The Graduate, in un film cult dall’omonimo titolo.

Benjamin,“Ben”, Braddock (Hoffman), 21enne di agiata famiglia, ritorna a casa dopo il completamento a pieni voti del corso di studi al college, in attesa della specializzazione. I genitori e gli amici di famiglia presenti al cocktail organizzato per il suo rientro sono prodighi di consigli sul suo avvenire e si attendono da lui grandi cose, ma questi la pensa diversamente o meglio non ci pensa affatto: stordito e confuso, attraversa la vita come un pesce che nuota nell’acquario, osservando il mondo circostante, lasciandosi circuire dalla fascinosa Sig.ra Robinson (Bancroft), imbastendo, più che altro per vincere la noia, una squallida relazione.

Le cose cambiano con l’arrivo di Elaine (Ross), figlia della suddetta signora, Ben ne è conquistato, confidandole dubbi, paure e la liaison con una donna più grande, tacitandone il nome. Ma la verità non tarderà a venire fuori…

Tuono lontano preannunciante quella tempesta generazionale che sarebbe scaturita di lì a poco, mutando il volto della società degli anni’60, scardinandone usi e costumi anche nell’ambito sessuale, e che avrebbe trovato caratterizzazione forse più pregnante in altre opere, il film è imperniato sulle vicende di un giovane che non solo non è in grado di cambiare il mondo, ma non ci prova neanche.

Gli basta infatti, constatata l’incomunicabilità assoluta con il mondo degli adulti, volti a mantenere e perpetrare lo status quo degli agi e delle consuetudini borghesi, perfettamente integrati e con i loro bravi scheletri nell’armadio, attuare una disobbedienza basata sul fare di testa sua, senza avere un preciso progetto.

Siamo di fronte ad un nuovo aspetto del cinema “made in Hollywood”, che guarda non poco verso l’Europa: la valida e rigorosa regia di Nichols (premio Oscar), tra originali inquadrature, essenzialità delle scene, molti piani sequenza, qualche zoom strettamente funzionale, dialoghi scarni ma taglienti ed ironici, non mette in scena né propriamente una commedia né tantomeno un melodramma, descrivendo semplicemente una quotidianità vista al di là delle convenzioni e della retorica, accentuando l’assenza di una vera e propria realtà da descrivere, essendo questa in continua trasformazione.

“E’ come se facessi un gioco senza capirne le regole, sono fatte dalle persone sbagliate. No, non sono fatte da nessuno, sembra che si facciano da sole”, spiega Ben ad Elaine: ecco quindi il “non eroe”, la cui introversione è imposta dall’esterno, costretto ad isolarsi ed impossibilitato ad attuare una scelta, in un continuo gioco al rimando tra ciò che si è e quel che si vorrebbe essere, tra quanto si pensa di volere e ciò che si vuole: il finale aperto, tutto da scoprire, tra i sorrisi e gli sguardi “sospesi” dei due giovani ne è la constatazione più evidente.

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