Quanti abitualmente leggono i miei resoconti cinematografici conosceranno la mia idiosincrasia per i sequel, specie quando da un secondo capitolo, a volte giustificato, si passa ad una reiterazione tale da elevare il tutto alla caratterista di saga, volta a perpetrare una serializzazione di stampo prettamente televisivo, anche a livello essenzialmente stilistico.Con questo spirito mi sono accostato alla visione del settimo Saw, che non ho visto in 3D, estremamente motivato dal sottotitolo Il capitolo finale.
Dal primo film (2004), di James Wan, cosceneggiatore insieme a L. Whannell opera a basso costo nel complesso originale, vari sono stati i cambi dietro la macchina da presa e alla scrittura, arrivando all’attuale Kevin Greutert, già autore del penultimo episodio, mantenendo in ogni realizzazione tutte le caratteristiche, positive e negative, che hanno permesso al personaggio di Saw l’enigmista- John Kramer (Tobin Bell), morto nel terzo episodio e fatto “rivivere” tramite flashback, di unirsi ai vari mad doctor che affollano l’immaginario collettivo, specie quello del pubblico più giovane.
Ecco quindi andare in scena ancora una volta tutta una serie di trappole e marchingegni del killer seriale, sempre per impartire alle sue vittime, persone dalla coscienza non proprio cristallina, “lezioni” sul significato della vita, convinto che lo si possa meglio comprendere quando si è sul punto di lasciare questa valle di lacrime, il tutto condito da effettacci gore e splatter sempre più insistiti, al limite del virtuosismo e della sopportazione visiva ed un moralismo d’accatto, ambiguo e mai incisivo.
Partendo da dove si era interrotto il sesto episodio, con il consueto trappolone iniziale a danno di tre “prescelti”, gli sceneggiatori P. Melton e M. Dunstan strutturano il tutto come un qualsiasi telefilm, alternando una serie di vicende date dall’entrata in scena di vari personaggi, dal detective Mark Hoffman (Costas Mandylor ), erede del mandato di Saw, alla moglie di quest’ultimo, Jill (Betsy Russell), che dopo aver cercato invano di fermarlo, decide di rivolgersi alla FBI, denunciandolo ed ottenendo protezione, ad un sedicente sopravvissuto alle sevizie dell’ Enigmista, Bobby Dagen (Sean Patrick Flanery),.
Quest’ultimo ha scritto un libro al riguardo ed è protagonista di dibattiti televisivi, oltre ad organizzare un gruppo d’ascolto con altri reduci; si arriva, stancamente, con il ripetitivo contorno di efferate punizioni perpetrate attraverso marchingegni sempre più fantasiosi, ad un finale veramente ben congegnato e diretto, con un valido, per quanto non originalissimo, montaggio alternato, che riesce contemporaneamente a spiegare molte cose riportando tutto agli inizi, dando un minimo di tensione e “sano” senso di paura, finalmente non stimolata dal semplice raccapriccio o disgusto.
Mai dire mai però, perché, per un vago senso di sospensione, furbescamente orchestrato, si può pensare che tutto sia concluso come che tutto possa riavere inizio. Da consigliare solo ai cultori della saga, ricordando però, tra il serio e il faceto, il divieto per i minori di 18 anni.





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