Davvero è sufficiente che un film non scenda a compromessi con la comicità più becera e si stemperi nel corso della narrazione in una sufficiente gradevolezza d’insieme, pur sviluppando una serie di gag tanto odorose di déjà-vu da poterne anticipare evoluzione e conclusione con una certa facilità, per definirlo una valida commedia, ancor prima che una realizzazione veramente adatta al grande schermo?
Ho praticamente risposto con una domanda, rimasta a sua volta senza una valida contro argomentazione, al proprietario del cinema del mio paesello, il quale, come solitamente avviene, era curioso di sapere la mia su quanto avevo appena potuto visionare, lasciandolo ancora una volta annichilito per la mia franchezza.
La peggior settimana della mia vita, esordio alla regia cinematografica di Alessandro Genovesi, anche sceneggiatore insieme a Fabio De Luigi, non mi è sembrata una pellicola particolarmente riuscita e, una volta per tutte, non intendo trincerarmi dietro il solito paravento del “carino” di circostanza utilizzato come chiosa finale.
Derivato da una sit-com trasmessa dall’inglese BBC, della quale traduce letteralmente il titolo, con più di un riferimento a certe commedie d’oltreoceano (Ti presento i miei su tutte, Jay Roach, 2000), il film relativamente allo stile si presenta come una sorta di mix tra cringe comedy, un tipo di commedia giocata sull’imbarazzo suscitato da determinate situazioni, e la cara, “vecchia”, sophisticated comedy, evidenziando però una scarsa empatia tra script e direzione, puntando soprattutto sulle interpretazioni degli attori, non sempre e non tutte particolarmente convincenti, nel cavalcare o offrire il destro alle varie circostanze comiche che si vengono a creare.
Strutturato in chiave di siparietti autoconclusivi, coincidenti con i giorni della settimana precedenti il matrimonio tra Paolo (De Luigi) e Margherita (Cristiana Capotondi), delinea la progressiva “evoluzione” in cataclisma dell’incontro del primo con i genitori della seconda, i buoni borghesi Giorgio (Antonio Catania) e Clara (Monica Guerritore), nella cornice di “quel ramo del lago di Como”: dall’uccisione, involontaria, dell’amato cane di famiglia a quella, non definitiva, della mamma del suocero, passando per i tragici contributi causati dalle moleste presenze di Simona, una sua ex (Chiara Francini), e del suo testimone Ivano (Alessandro Siani), sino all’inevitabile happy end.
Il tutto, nel complesso, mi è francamente sembrato molto simile ad un prodotto televisivo, con una evidente incapacità di gestione del comico che non sia di sola superficie, non riuscendo a sfruttare efficacemente il lato grottesco di molte vicende e, in particolare, a prevedere un’evoluzione dei personaggi tale da garantirne un’immedesimazione con noi spettatori, nel bene o nel male.
De Luigi che chiude i suddetti siparietti con la solita faccia trita e contrita in primo piano ed urlo ad effetto, per quanto abile a reggere il gioco, ha sempre l’aria di chi si è sporcato la camicia col sugo, come nello spot di un detersivo del quale è protagonista, la Capotondi è incerta se mettere da parte il suo candore da Biancaneve, Siani vince il premio per la miglior interpretazione di un Post-it, a pari merito con la Francini, mentre Catania e Guerritore si adeguano al contesto, tra understatement di circostanza e studiate scene madri.
Certamente non la peggiore commedia in circolazione, ma, ancora una volta, un evidente segnale dell’adeguamento standardizzato alla “bella confezione”, cavalcando l’onda del minimo sindacale di resa scenica complessiva, un tentativo di volare alto per poi accontentarsi di stabilizzarsi a mezza quota, incerti se atterrare sulla pista della medietà o della mediocrità, i cui confini si fanno sempre più labili e in attesa di inedite classificazioni.





Lascia un commento