
Ieri, martedì 18 luglio, all’interno della consueta puntata di Sunset Boulevard, in onda dagli studi di Radio Gamma, ha preso il via una collaborazione con FilMuzik Arts Festival, manifestazione cinematografica-musicale che avrà inizio, per la direzione artistica di Alberto Gatto, da giovedì 20 luglio, quando al Palazzo Amaduri di Gioiosa Ionica (RC) sarà presentata la V Edizione.
In ogni puntata, fino ai primi di settembre, condivideremo l’analisi dei film in proiezione al Festival, compresi quelli che sono stati selezionati nell’ambito delle opere pervenute, mentre al di fuori della consueta programmazione del martedì sarà trasmesso uno speciale, dedicato alle interviste con alcuni protagonisti della kermesse.
Il blog ospiterà la trascrizione dei testi redatti dallo scrivente per la trasmissione, iniziando con la scaletta dell’ultima puntata (in replica sabato alle 10), che prevede una breve descrizione della musica heavy metal, tema portante di alcuni titoli in proiezione al Festival nel corso di questa settimana, e poi le recensioni del cortometraggio finlandese Saga Caiania (Mikko Kähkönen ed Elmeri Kinnunen, 2023) e dei film Sound of Metal (Darius Marder, 2019) ed Elvis (Baz Luhrmann, 2022), in cartellone rispettivamente il 21 e il 23 luglio alle ore 22.
Il FilMuzik Arts Festival rientra tra le attività dell’associazione culturale Bird Production, fondata nel 2005 dal citato Alberto Gatto, regista, coltivando in particolare l’intento di produrre cortometraggi, videoclip musicali e spot promozionali. Dal 2014 la produzione si è incentrata anche su film documentari a carattere musicale, mentre dal 2019 si è dato il via al FilMuzik Arts Festival, così da favorire la diffusione di progetti, anche sperimentali, che uniscano il cinema e la musica.
Un click (o un tocco col dito) qui per informazioni sul programma del Festival
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Come riporta Wikipedia. l’heavy metal (in lingua italiana letteralmente “metallo pesante”), detto comunemente metal, è un genere musicale derivante dall’hard rock, caratterizzato da ritmi fortemente aggressivi e da un suono potente, ottenuto dando enfasi all’amplificazione e alla distorsione delle chitarre, dei bassi, e, talvolta, persino delle voci. Già molto popolare negli anni settanta ed ottanta, ha continuato ad avere successo nei decenni seguenti, generando una moltitudine di stili e sottogeneri, da quelli più melodici e commerciali ed altri dalle sonorità estreme e underground.
L’uso dell’espressione heavy metal riferita a un genere musicale risale alla stampa statunitense nei primi anni settanta, ma il primo utilizzo in un brano lo si deve alla band Steppenwolf con Born to Be Wild, pubblicata nell’omonimo album del 1968 e inclusa nella colonna sonora del film Easy Rider (Dennis Hopper, 1969); in questo brano compare la frase “heavy metal thunder” (“tuono sferragliante”), con riferimento al rombo proprio del bicilindrico delle moto usate dai riders.
Saga Caiania (2023)
Cortometraggio musicale diretto dai musicisti finlandesi Mikko Kähkönen ed Elmeri Kinnunen, inteso a celebrare la bellezza ancora selvaggia ed incontaminata della regione di Kainuu (Caiania secondo la denominazione latina), in Finlandia, caratterizzata da un territorio costituito per il 95% da imponenti distese boschive.
Attraverso il montaggio alternato e nel rimarcare un suggestivo legame tra suono ed immagini, si mette in scena la contrapposizione tra la bellezza della natura ad una sua possibile contaminazione in nome di progetti che ne sconvolgerebbero l’essenza e le tradizioni di cui gli abitanti si rendono ancora fieri portatori.
Le musiche da melodiche ed insinuanti nel contornare le immagini delle foreste e dei laghi circostanti si fanno mano a mano più aggressive, in stile heavy metal, a connotare l’ingerenza esterna di chi quei posti vorrebbe mutare in nome di uno sterile progresso volto al mero guadagno.
Sound of Metal (2019)
Ruben Stone (Riz Ahmed), batterista, e Louise, Lou, Berger (Olivia Cooke), cantante, formano il duo Blackgammon: suonano musica heavy metal e girano a bordo di un gigantesco camper in lungo e in largo per gli Stati Uniti d’ America, esibendosi in vari concerti. Fanno coppia anche nella vita, ormai da quattro anni, coincidenti con l’uscita del ragazzo dal tunnel della tossicodipendenza.
Una mattina Ruben avverte al risveglio di non percepire più alcun rumore, per cui, dopo lo sconcerto iniziale, si reca in farmacia, venendo quindi indirizzato da uno specialista per sottoporsi ad una visita medica, che avrà come diagnosi un deterioramento dell’udito tale da non fargli comprendere il 70-80% delle parole del test cui il dottore lo ha sottoposto, invitandolo ad evitare l’esposizione a forti rumori.
Vi sarebbe la possibilità di ricorrere ad un impianto cocleare, ma il costo dell’intervento non verrebbe coperto dall’assicurazione. Il nostro proverà a dare seguito alle esibizioni, fino a quando Lou non si renderà conto della situazione e lo spingerà ad entrare in una comunità per sordi, gestita da Joe (Paul Raci), un reduce del Vietnam che ha perso l’udito causa lo scoppio di una bomba, mentre lei ritornerà dal padre, a Parigi. Ruben, per quanto poco convinto, si darà comunque da fare per seguire il previsto programma, a partire dall’apprendimento del linguaggio dei segni, ma senza accettare fino in fondo la sua condizione…
Diretto da Darius Marder, anche autore della sceneggiatura insieme ad Abraham Marder, sulla base di un soggetto scritto dal regista Derek Cianfrance incentrato sulla sua esperienza di batterista affetto da acufene, Dark of Metal si sostanzia alla visione come un film che riesce a coinvolgere gli spettatori per il tramite di stilemi registici diretti ed essenziali, tali da far percepire una certa linearità narrativa nello scorrere della storia in divenire, ad assecondare il “qui e ora”, aggirando il filtro della sceneggiatura.
L’uso precipuo della macchina a mano, quasi sempre stretta sui volti a percepire e trasmettere le emozionalità dei personaggi, la fotografia (Daniël Bouquet) incline a prediligere tonalità scure nel rimarcare le inquietudini del protagonista, rendono evidente la marcata propensione a mutare l’oggettività in soggettività, nel farci percepire suoni, rumori e parole così come avvertiti da Ruben, interpretato con dolente resa immedesimativa da Riz Ahmed, oscillando tra rabbia repressa ed egoistica speranza. Ottimo quindi il lavoro sul sonoro (Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés e Philip Bladh), premiato con l’Oscar al pari del montaggio (Mikkel E.G. Nielsen).
Quest’ultimo ovvia in parte all’eccessiva lunghezza della pellicola, cui avrebbe giovato, a mio parere, qualche sfrondatura relativamente a parti inutilmente descrittive.
Noi spettatori partecipiamo alla dolorosa scoperta di Ruben riguardo la perdita dell’udito, dal non avvertire più, se non ovattati e lontani, i tipici suoni della quotidianità tra i quali, ad esempio, lo sfrigolare del caffè rimasto nel bollitore, fino alla distorsione gracchiante e metallica dell’apparecchio che si farà installare, percorrendo insieme a lui un particolare percorso formativo, che lo condurrà ad accettare la sordità, riprendendo le parole di Joe, non come un handicap o “qualcosa da aggiustare”, bensì quale diversa modalità di approcciarsi alla vita, apprendendo la possibilità di ascoltare con nuove “orecchie”, tanto da apprezzare anche la suggestione propria del suono del silenzio nel far avvertire la rilevanza di diverse voci.
Elvis (2022)
Presentato, fuori concorso, al 75mo Festival di Cannes, Elvis, diretto da Baz Luhrmann, anche autore della sceneggiatura insieme a Sam Bromell, Craig Pearce, Jeremy Doner, per quanto rispecchi la struttura di un classico film biografico nell’assunto narrativo essenziale, spariglia invece le carte per la trasposizione visiva ed una scomposizione temporale che rifugge dalla linearità.
Si dà infatti vita ad una caleidoscopica e rutilante immersione pop, un vorticoso giro su di un ottovolante alimentato da soluzioni registiche volte alla spettacolarità sgargiante e sfarzosa, già dai titoli di testa, per poi arrivare a scomporre ripetutamente lo schermo nel rappresentare diverse visualizzazioni, in guisa di diversificati punti di vista, riguardo l’incedere di determinati accadimenti, creando una sinergica e serrata sinergia tra regia, montaggio (Matt Villa, Jonathan Redmond) e musica.
Voce narrante e commentatore, il sedicente colonnello Tom Parker (Tom Hanks, in evidente trucco prostetico), imbonitore patentato e laido ludopata, l’agente di Presley, quest’ultimo ottimamente reso nelle frenetiche movenze e nella voce da Austin Butler.
Diabolico compratore di anime, da condurre all’inferno della notorietà universale, “verso l’infinito ed oltre”, tra sfruttamento in nome del merchandising e, soprattutto, del tornaconto personale, Parker ci illustra quindi le tappe salienti della vita di Elvis e della sua carriera, dall’infanzia in quel di Memphis, unica famiglia di bianchi in un quartiere popolato da famiglie di colore, acquisendo quasi misticamente l’essenza propria del rhythm and blues (un sensuale ballo sulle note di That’s all right, Mama, Arthur Crudup Jr), ma anche dei gospel, sonorità che andranno ad influenzare, nella mescolanza di musica country e nascente rock ‘n roll, le sue canzoni e gli scandalosi “movimenti da nero” una volta sul palco.
Un esplosivo cocktail tra sessualità e musicalità mal visto da quanti, benpensanti e politicanti, vi scorgevano una minaccia corruttiva della “razza bianca”. Si passa poi alla fase in cui il cantante aspirava a divenire un attore hollywoodiano sulla scia di James Dean o Marlon Brando, per essere invece coinvolto per lo più in modeste produzioni a sfondo canterino, e ci si prepara a chiudere il sipario con la lunga prigionia dorata in quel di Las Vegas, Elvis costretto ad esibirsi sempre sotto l’egida di Parker, cui si era invano ribellato (l’esecuzione di If I Can Dream, in memoria di Martin Luther King, in luogo del paventato concerto natalizio per la televisione, ad esempio), vista l’opposizione delle finanze in affanno (le proprie e quelle del malefico agente).
Spazio anche per il rapporto coi genitori, la madre in particolare, e con la moglie Priscilla (Olivia DeJonge), unione da cui nacque una bambina, Lisa Marie.
Tra tanto ostentato luccichio qualche sequenza nella sua “pulizia” visiva riesce comunque ad evidenziare la rilevanza della musica nel conferire sinergico avallo ai mutamenti di costume in atto nella società americana: penso in particolare a quella in cui Elvis, nonostante l’imposto divieto di ancheggiare, fa sfoggio di tutte le sue note movenze, se possibile in versione ancora più frenetica nel corso di un concerto, dove il montaggio crea una contrapposizione col greve discorso secessionista del governatore, ma soprattutto all’innesto di materiali di repertorio verso il finale, quando la comparsa del vero Elvis, imbolsito e appesantito, ci offre comunque la concreta realizzazione di un sogno, non del tutto minato dai “mercanti del tempio”, ovvero cantare per dare un senso alla vita, propria e altrui, offrendosi definitivamente alla leggenda.






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