
Pubblico di seguito, riadattati in forma di articolo, i testi redatti dallo scrivente per la trasmissione Sunset Boulevard andata in onda ieri pomeriggio, martedì 8 agosto (replica sabato, ore 10) su Radio Gamma, con una scaletta incentrata sulle proiezioni previste nel corso di questa settimana all’interno della manifestazione cinematografica-musicale FilMuzik Arts Festival, la cui V Edizione, per la direzione artistica del regista Alberto Gatto, ha avuto inizio giovedì 20 luglio e proseguirà fino al 3 settembre nel giardino di Palazzo Amaduri a Gioiosa Ionica (RC).
Dallo scorso martedì, 18 luglio, infatti, la trasmissione radiofonica ospita la disamina dei film in proiezione al Festival, compresi quelli che sono stati selezionati nell’ambito delle opere pervenute, mentre al di fuori della consueta programmazione del martedì sarà trasmesso uno speciale, dedicato alle interviste con alcuni protagonisti della kermesse, come quella annessa all’articolo, che mi vede chiacchierare con l’autore ed interprete teatrale Francesco D’Aquino del Teatro Fuorisquadro di Caulonia (RC), che lo scorso mercoledì, 2 agosto, ha presentato la suggestiva e coinvolgente rappresentazione, tra memoria storica e attualità, Del resto io resto.
Un click (o un tocco col dito) qui per informazioni sul programma del Festival
10/08 ore 22– NudoMuoviModì, cortometraggio d’animazione scritto e diretto da Santoro Procopio, offre un suggestivo percorso visivo che riesce a rimarcare quell’intrigante incontro tra fine tratteggio e coinvolgente voluttuosità proprio dei nudi femminili ritratti da Modigliani, facendo sì che fuoriescano dalle tele in cui si trovano incastonati e prendano possesso dell’ambiente circostante, offrendo quindi ai dipinti in questione una quotidianità incline a rendere l’opera d’arte ulteriormente immortale, nell’ambito di una immediata fruibilità.
13/8 ore 22– Love Asks For Everything, l’elegiaca e toccante composizione musicale opera di Federico Paolinelli ispira il regista Riccardo De Angelis nella realizzazione dell’omonimo video, di cui è protagonista un mimo (lo stesso Paolinelli), il quale dopo lo spettacolo lungo una pubblica via, dichiara il suo amore ad una donna (Cecilia Raponi), che sta allestendo la vetrina all’interno di un negozio.
Lo fa per il tramite della propria arte, una gestualità che rende il sentimento realizzabile nell’ambito di una cornice immaginifica, ma che comunque mantiene un contatto con la realtà, almeno quella corrispondente ai desideri più intimi e profondi, liberi da qualsivoglia gravame legato alla ordinaria ritualità esistenziale.
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10/8, dopo la proiezione di NudoMuoviModì- Ombre a Mezzogiorno, documentario diretto da Enrico Carnuccio, anche autore della sceneggiatura insieme a Nicodemo Bumbaca, nonché del montaggio (coadiuvato da Enrico Masi), offre una riflessione sincera e profonda sull’identità concreta propria del Mezzogiorno d’Italia, la Calabria nello specifico, allo stato attuale e alla luce di una ritrovata memoria storica, con gli abitanti dei vari paesini arroccati sulle montagne o adagiati lungo le coste propensi ad emigrare verso il Nord, meta precipua Torino, capitale dell’auto negli anni del boom economico e per tutti gli anni ’70.
Lo scorrere temporale veniva inframmezzato dalle lotte sindacali a tutela dei diritti esistenti o a proporne di nuovi, alla luce di rinnovate esigenze legate alla salute e al benessere, anche economico, dei lavoratori e dei loro familiari. Riportando come al solito la mia primaria impressione, ritengo che l’asse portante dell’iter narrativo di Ombre a Mezzogiorno, costruito su di una funzionale alternanza tra materiale d’archivio e girato attuale, sia da rinvenire nella didascalia iniziale che riporta una frase esternata da Corrado Alvaro e ripresa da Vito Teti nel suo libro Maledetto Sud (Giulio Einaudi Editore, collana Vele, 2013), andando dunque a focalizzare come erranza e stanzialità, partenza e restanza siano due aspetti paritetici che vanno a stagliarsi sullo sfondo di altrettante realtà, apparentemente diverse.
E così se nelle vesti di due inediti Virgilio a farci da guida lungo i gironi del passato e del presente, l’ex operaio della FIAT Tullio e la moglie Rita ripercorrono a bordo di una simbolica 126, targata Torino, quei territori che hanno lasciato anni addietro, constatandone tanto lo stato di abbandono quanto il continuare a perpetrare determinate tradizioni in guisa di ultimo baluardo ostentato in nome di una resistente vitalità, su al Nord quelle fabbriche che un tempo hanno visto faticare tanti operai alla catena di montaggio, ora, quando non abbattute, si ergono quali vacui simulacri, classiche cattedrali nel deserto a testimoniare una idea di forzata modernità e della sua progressiva generalizzazione, fino a giungere poi al progressivo dissolvimento una volta che andava a capovolgersi il paradigma domanda/offerta.
Ecco allora, andando a concludere, che nel finale si fa ritorno al punto di partenza di questa visualizzazione di “un viaggio nel doppio identitario”, andando ad usare la stessa definizione delineata dagli autori, ovvero, riprendendo in chiusura quanto scritto nel corso dell’articolo, il prospettarsi di due facce della stessa medaglia: la perdita progressiva d’identità dell’essere umano in quanto tale, nel tendere la fune tra innovazione e tradizione, senza riuscire a porre in campo la necessaria mediazione tra le due entità, apparentemente antitetiche.
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13/8, dopo la proiezione di Love Asks For Everything- Margini, film che ha aperto la 37ma Settimana Internazionale della Critica all’interno di Venezia 79, dove ha conseguito il Premio del Pubblico The Club, rappresenta l’esordio alla regia di Niccolò Falsetti, anche interprete ed autore della sceneggiatura insieme a Francesco Turbanti e Tommaso Renzoni, si palesa alla visione come una realizzazione incline a coniugare una certa ruvidezza stilistica con la poetica propria della vita di provincia, andando a delineare un racconto di formazione o, meglio, inteso all’addio della relativa spensieratezza giovanile in nome di una necessaria presa di coscienza nei confronti di una responsabilità maggiormente adulta, che almeno provi a conciliare l’anelato onirico con la necessarietà impellente richiamata a piè sospinto dal vivere quotidiano.
La storia prende il via in quel di Grosseto, a fine estate del 2008: gli amici di lunga data Michele (Francesco Turbanti), disoccupato, sposato con Margherita (Silvia D’Amico), cassiera in un supermercato ed una figlia, Alice, Edoardo (Emanuele Linfatti), un lavoro come aiutante del compagno della madre (Nicola Rignanese) nel gestire il locale da ballo Sala Eden e Iacopo (Matteo Creatini), rampollo di una famiglia benestante di cui asseconda gli ideali borghesi studiando violoncello (potrebbe suonare nel tour francese di Daniel Barenboim), compongono il gruppo punk Wait For Nothing, che si esibisce in lungo e in largo per la provincia, tra sagre paesane e Feste dell’Unità.
Quando sembra essere arrivata una proficua svolta al consueto girovagare, la possibilità di suonare in un concerto a Bologna insieme alla band statunitense The Defense, un imprevisto manda all’aria tutto, ma i tre non sia arrendono, anzi decidono di organizzare un’esibizione della citata band proprio a Grosseto, andando incontro a varie difficoltà, tra burocrazia legislativa e mentale, tanto da mettere presto in crisi i rapporti familiari e la loro stessa amicizia…
Margini è un’opera prima per molti versi sorprendente, in particolare considerando come riesca a conciliare senza alcun stridore realismo ed ironia, amarezza e voglia di pigliare tutto in burla, con una regia attenta tanto a caratterizzare sapidamente la caratterialità propria di ciascun personaggio quanto a far emergere i limiti propri della vita in provincia, sorto di microcosmo rappresentativo di un placido assecondare il corso esistenziale, servendosi inoltre di una fotografia (Alessandro Veridiani) volta a sostenere il grigiore proprio delle ritualità rassicuranti (ad esempio, la musica anni ’80 della Sala Eden) e di una colonna sonora propriamente funzionale nel corrispondere essenzialmente a quanto ascoltato dai protagonisti o suonato nell’ambito delle esibizioni.
Ecco allora stagliarsi le figure di tre vincitori a modo loro, sognatori che non si sono mai arresi, citando Nelson Mandela, che hanno visto nella musica la potenzialità necessaria a conferire una scossa vitale alla ordinaria ritualità, forse fine a se stessa, ma comunque utile ad innescare un salutare cortocircuito, così da evidenziare tutte quelle storture e quelle contraddizioni che andranno a palesarsi nel tentativo profuso a cambiare il mondo, almeno quello in cui si vive, con le sue stantie modalità di approcciarsi alla vita arroccandosi tra reminiscenze vacue e rigidi parametri comportamentali, pur nella consapevolezza, probabilmente sottesa, che quel mutamento non avverrà mai.






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