
Anche quest’anno Sunset Boulevard è media partner del Garofano Rosso Film Festival, la cui terza edizione prenderà il via oggi, lunedì 4, a Forme di Massa d’Albe (AQ), per concludersi domenica 10 settembre; con il seguente articolo inizio a scrivere le recensioni di alcuni cortometraggi visionati fra quelli selezionati, in differenti sezioni, dal festival.
World Cup, Sezione Frontiers, scritto e diretto dalla regista iraniana Maryam Khodabakhsh, vede protagonista una giovane coppia, Afsaneh (Zahra Aghapour) e Bahram (Ali Tabe Emam).
Stanno per lasciare l’Iran, un viaggio verso un altrove possibilmente diverso, dove vivere decorosamente e far nascere e crescere quel bambino da qualche mese nel grembo materno.
Nel frattempo, proprio la sera in cui stanno organizzando la partenza, devono occuparsi del figlio di un loro amico, Omid (Kian Zarei), sei anni, anche se Bahram sembrerebbe più interessato alla partita dei Mondiali di Calcio 2018, trasmessa in televisione, la nazionale iraniana gioca col Portogallo.
Il ragazzino, rattristato per l’assenza del genitore, ad un certo punto scompare dalla loro vista e i due si prodigano a cercarlo, nell’esternazione reciproca di malumori e contrasti caratteriali. Infine Afsaneh rivelerà un doloroso segreto, l’aver abortito qualche settimana addietro, nella paura di non poter lasciare la terra natia.
Khodabakhsh si rivela un’autrice sensibile nel suffragare la strada del realismo e dell’immediatezza, un “qui e ora” dalla consistenza prossima al documentario, avallato dalla ruvida fotografia (Ehsan Eskandari) e mediato dal filtro della sceneggiatura, cui si aggiunge il sostegno delle valide interpretazioni attoriali.
Gli accorti movimenti di macchina su ambienti e personaggi conferiscono sostanza empatica, nella visualizzazione di quel straniante senso di povertà, morale e materiale, proprio di chi vede nel futuro nient’altro che la possibilità di aggiungere un ulteriore giorno alla rituale esistenza.
Il piccolo Omid si rende metafora nel raffigurare il bambino che avrebbe potuto essere presente nella vita della coppia, costituendo per Afsaneh una sorta di provvida catarsi, che andrà a manifestarsi progressivamente in virtù dell’alternanza tra presenza ed assenza, fino al doloroso adattamento all’esistenza che ci si è trovati a vivere.
The Ode on Cure, Sezione Bizarre, scritto e diretto da Vladislav Motorichev, è dedicato alla memoria di Alberto Giacometti, pittore, incisore e scultore svizzero di lingua italiana (1901-1966), che appare in un breve filmato, sorta di prologo, ad inizio film.
Fu un seguace del surrealismo, accostandosi poi alle problematiche esistenzialiste nell’osservazione della realtà, per cui gli oggetti venivano ritratti una volta che lo sguardo dell’artista ne aveva colto la relazione tra di loro e con quanto vi gravitava intorno.
Per il tramite della personificazione visiva dell’anima di un artista (Vladimir Rivkin), alla ricerca di una propria dimensione complessiva, Motorichev delinea in chiave di metafora quella mescolanza di “tormento ed estasi” che è propria del passaggio tra ispirazione primaria e creatività.
Nell’incedere onirico, o più propriamente lisergico, delle immagini, sostenuto dai colori accesi della fotografia (Victoria Stanyulis) e dalle note della vibrante colonna sonora (Dmytro Maklyakov), l’artista viene dunque visto come colui che è capace tanto di esplorare quanto di mettere a nudo ciò che di recondito accoglie la propria interiorità, fino ad esternarlo una volta preso contatto con una realtà forse a lui non congeniale, ma trasmutata attraverso l’atto creativo, che si renderà quindi manifestazione delle personali modalità esistenziali.
As Possible As Everything, Sezione Femme, scritto e diretto dalla regista turca Selen Orcan, ha come protagonista la giovane Saadet (Selin Hasar), che vive in un distretto di Istanbul, Basaksehir.
Fresca di laurea, si appresta ad affrontare il suo primo colloquio lavorativo, indirizzata al riguardo da papà Galip (Mehmet Esen), che ha provveduto ad una “segnalazione” tramite il suo ex datore di lavoro, sperando così di poter accedere a una concreta stabilità economica, riscattandosi da anni di patimenti e privazioni.
Alla fermata dell’autobus, Saadet si vede offrire un passaggio in auto da una donna, Cigdem (Zeynep Kiziltan) e lo accetta. Una chiacchiera tira l’altra e le due donne, pur considerando la differenza di età, con relative conseguenze esistenziali (Cigdem ha un bambino di quattro anni), e di classe sociale, si troveranno accomunate da tutta una serie di problematiche, almeno fino a quando l’auto non si fermerà per un guasto e le due avranno modo di comprendere come si stiano recando nella stessa azienda per un colloquio di lavoro relativo allo stesso posto…
Selen Orcan si destreggia con disinvoltura nel raffigurare con piglio realistico la difficile problematica relativa all’approccio dei giovani al mondo del lavoro, ponendo in scena la raffigurazione di due differenti personalità, quella della giovane Saadet, che sembra non avere una particolare fiducia nelle proprie possibilità, seguendo quindi più la volontà paterna che una propria idea di realizzazione e l’altra della navigata Cigdem, forte degli insegnamenti che la vita, nel bene e nel male le ha elargito.
Quest’ultima, infatti, non rivendica tanto “il diritto di interferire con la vita di qualcun altro”, come le rinfaccia Saadet, quanto piuttosto la costanza di adattare la personale esperienza all’interno di un sistema certo distante dalla meritocrazia pura e semplice, lottando e non rinunciando in partenza. Una sorta di lezione impartita alla giovane rivale, che nella rinuncia ha perso la partita ancor prima del fischio d’inizio.
It’s a Matter of Hours and Days, Sezione Afterword, scritto e diretto da Efrat Lipschitz, è un cortometraggio che mi ha piacevolmente colpito per la delicatezza profusa, rifuggendo sentimentalismi pietistici in nome di un’asciutta concretezza, nel visualizzare l’addio al proprio padre da parte di una ragazzina (Maayan Poria), che si trova nell’ospedale dove lo stanno sottoponendo alle ultime cure, insieme alla madre (Nili Tserruya).
Se quest’ultima appare permeata da una certa freddezza emotiva (“quando si muore si diventa santi, ma lui non era un santo…io lo ho amato molto, ma non era un santo...”) e disposta ad accettare l’imminente addio come qualcosa di ineluttabile senza porsi tante domande, la figlia invece si agita tra tanti interrogativi, assiste il genitore mentre gli viene iniettata la morfina, fino a convenire al termine di un personale percorso formativo, “che non è cosa buona osservare il sole per troppo tempo”, all’alba segue necessariamente una giornata da affrontare ed infine un tramonto: quando tutto sarà compiuto, tutto avrà nuovamente inizio.






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