
Seconda parte delle pubblicazioni inerenti alle recensioni di alcuni cortometraggi visionati fra quelli proposti, in differenti sezioni, dal Garofano Rosso Film Festival, in corso di svolgimento dallo scorso 4 settembre a Forme di Massa d’Albe (AQ), per concludersi domenica 10, del quale Sunset Boulevard è media partner.
Scomparire, Sezione Dystopia, diretto da Daniele Nicolosi, anche autore della sceneggiatura insieme a Giampaolo Galli, è una realizzazione che mi ha piacevolmente sorpreso e coinvolto, vuoi per l’accuratezza complessiva della messa in scena, con il lavoro congiunto di scenografia (Lorenzo Nicolosi e Alberta Avanzi) e fotografia (Francesco Crivaro) a rendere la Torino distopica del 2046, esteticamente vicina alla Los Angeles di Blade Runner, vuoi per delineare con efficacia l’assunto di un mondo ormai dominato dalla realtà virtuale.
Tutto, compresi i rapporti umani in ogni declinazione, è gestito da un’apposita società, che opera allo scoperto, non più con modalità subdole volte ad irretire gli utenti, quest’ultimi ormai definitivamente asserviti ad una calcolata logica omologante.
Il valido lavoro di scrittura e le coinvolgenti interpretazioni attoriali, con la complicità di una sequenza iniziale che richiama i vecchi filmini familiari (vedi la fotografia opaca e sgranata), rendono l’idea di trovarsi innanzi alla consueta visualizzazione di un amore passato, il ricordo confuso di un uomo (Andrea Bosca), il suo incontro con una donna (Euridice Axen), il rimembrare insieme una relazione i cui slanci passionali sono ormai lontani, ma il finale piuttosto spiazzante rimette tutto in discussione, rimarcando l’asservimento di qualsivoglia logica umanitaria ad una volontà imposta dall’alto, con i sentimenti posti in vendita sugli scaffali al pari di ogni genere di consumo.
Buon Natale, Sezione Wonderland, scritto e diretto da Viren Beltramo, è ambientato nella Torino di fine anni ’80 e vede al centro della narrazione Giorgio (Savino Genovese), divorziato, e Giulia (Bianca Genovese), la figlia di otto anni, trascorrere il consueto pranzo natalizio a casa dei familiari di lui.
Una famiglia classicamente borghese, ancorata a determinati rituali e rigide convenzioni sociali, che non ha mai visto di buon occhio la scelta di Giorgio di dedicarsi alla pittura, con la quale i due non sembrano avere nulla a che fare, subendo forzate attenzioni e malcelata ironia.
Ma la piccola Giulia ha un segreto per fare in modo che quell’assurdo e scomposto teatrino divenga parte di un particolare gioco, insegnando al genitore cosa voglia dire realmente fermare il tempo, bloccare un attimo di autenticità a garantire l’eternità di un affetto puro e sincero…
La scelta di un formato 4:3 credo possa corrispondere, riporto la mia primaria sensazione, ad una precisa scelta dell’autrice di “costringere” la visione all’interno di un gruppo familiare convenzionalmente riunito per le festività, ponendo così in risalto ogni espressione emozionale dei suoi componenti, ma anche riportando la visualizzazione che ne hanno padre e figlia.
Beltramo riconduce poi il tutto, con estrema delicatezza ed evitando le sdolcinature di rito, nell’alveo onirico di quella semplicità fanciullesca idonea a conferire un inedito senso alle cose, pur lasciandone intatta la sostanza, un’ innocenza che, vedi la bella sequenza finale, a noi cosiddetti adulti non farebbe male recuperare.
I rapporti familiari son anche al centro della narrazione di Funeral, Sezione Afterword, scritto e diretto dal croato Simun Situm, ma con modalità più dirette, per quanto permeate a tratti da una sottile ironia.
La vicenda si svolge nella città di Spalato: Mario ( Simun Situm) una volta morto il nonno, decide di aiutare il padre Bruno (Stojan Matavulj), figlio del deceduto, in tutte quelle procedure inerenti la scomparsa di una persona cara: i due esternano le reciproche idee riguardo la cerimonia funebre, ritrovandosi spesso in disaccordo, come del resto già nei vari ambiti esistenziali.
La sceneggiatura appare piuttosto curata, si basa prevalentemente sui dialoghi, così da far emergere, congiuntamente alle interpretazioni attoriali, ogni sfumatura caratteriale dei due protagonisti, il diverso modo di affrontare la vita in genere e nelle esternazioni affettive in particolare, tra l’ostentata durezza del padre e la maggiore malleabilità del figlio.
Il regista pedina letteralmente i due protagonisti, alternando i primi piani alle riprese cittadine, nell’intento di enfatizzare il legame ambiente-personaggi, circoscrivendo la durata cinematografica a quella propria dello svolgersi di una qualsiasi giornata.
Da segnalare il montaggio di Sandro Baraba, che assicura una buona fluidità narrativa. Bruno e Mario manterranno le reciproche discordanti posizioni, ognuno proseguirà sulla sua strada, ma forse qualche incrinatura potrebbe essere presente sul muro del reciproco conflitto.
La vida entre dos noches, Sezione Lacci, scritto e diretto da Antonio Cuesta. Pepe (José Manuel Poga), lavoratore saltuario, si prende amorevolmente cura del figlio Jesús (Javier Delgado Pérez), costretto su una sedia a rotelle causa paralisi cerebrale.
Una mattina il nostro, chiamato per un lavoro in un mercatino rionale, vista l’impossibilità della persona incaricata in tali frangenti di badare al ragazzo, si rivolge a tutti gli abitanti dello del palazzo, ricevendo un netto rifiuto, tra scuse e vari pretesti, veritieri o meno.
Lo porterà allora con sé, ma non tutto andrà per il verso giusto, la mancanza di qualsiasi empatia o semplice immedesimazione sembrerà trionfare, però l’amore paterno alla fine avrà la meglio su quanti vedono nella cosiddetta “diversità” nient’altro che una devianza dai precostituiti canoni della tanto sbandierata e anonima “normalità”.
Cuesta scrive e dirige con fermezza, puntando su realismo ed immediatezza e deviando da toni pietistici, volti alla commiserazione. Riesce così ad evidenziare l’aridità ormai propria dei rapporti umani, la difficoltà di considerare il prossimo come “l’altro da sé”, costruendo, con l’ ottimo apporto di fotografia (Manuel Montero) e montaggio (Rocio Menéndez), una storia che ha tutta la concretezza di una quotidianità vissuta nella sua interezza dai due protagonisti, accettando ed adattandosi ad ogni fluire emozionale, mentre il “resto del mondo” rimane, colpevolmente, a guardare.






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