
Terza parte delle pubblicazioni inerenti alle recensioni di alcuni cortometraggi visionati fra quelli proposti, in differenti sezioni, dal Garofano Rosso Film Festival, in corso di svolgimento dallo scorso 4 settembre a Forme di Massa d’Albe (AQ), per concludersi domenica 10, del quale Sunset Boulevard è media partner.
Argento vivo, Sezione Afterword, per la regia di Giantommaso Puglisi, anche autore della sceneggiatura insieme a Stefano Campagna, è una realizzazione toccante e sincera, che affronta la tematica della continuità del rapporto di coppia quando uno dei coniugi versi in determinate condizioni di salute che ne impediscano un’esistenza attiva nei riguardi di quanto lo circonda, persone, oggetti, ambienti e situazioni.
All’egoismo del voler accanto, sempre e comunque, la compagna o il compagno di un tempo, va gradualmente a sostanziarsi una sublimazione del sentimento amoroso verso la protezione e la cura: la persona a noi cara è ancora al nostro fianco, il ricordo di quanto trascorso insieme consentirà di vivere meglio il presente, nella sua consueta alternanza di felicità e tristezza, in costante equilibrio sulla corda tesa della vita.
Nell’incedere narrativo del cortometraggio, che vanta anche una fotografia (Campagna) dalla suggestiva alternanza cromatica, quanto finora scritto viene visivamente reso per il tramite del protagonista Alfredo (Enzo Lenzetti), settantenne, il quale ha costruito un curioso macchinario che gli permette di vedere, attraverso dei filmini in Super 8, la moglie Serena, al culmine della giovinezza, in quegli ambienti della casa da cui ora è giocoforza assente, costretta a letto dalla malattia.
Il tutto fino a quando il nostro non si renderà conto dell’aridità ripetitiva di quanto posto quotidianamente in essere, una finzione certo più amara e straniante di quella realtà che prospetta la possibilità di condividere fino in fondo il comune cammino, assecondando il fluire temporale ed accettandone ogni variazione sul tema.
Six Feet Of Separation, Sezione Lacci, per la regia di Toni Nordli, anche autore della sceneggiatura insieme a Oscar Guglielmone, nonché del montaggio e della fotografia, si svolge nella Londra del marzo 2020, in pieno incedere pandemico, quando Boris Johnson invitò i cittadini a seguire una sola semplice regola, quella di stare a casa.
Alle visioni di una città pressoché deserta nei suoi luoghi più caratteristici, con la lunga fila per entrare nei supermercati, dove molti scaffali appaiono tristemente vuoti, si alternano le video chiamate tra Noah (Fayez Barksh) e Dina (Nina Yndis), che gestiscono così il loro rapporto, cercando di mantenerlo vivo.
La ragazza, norvegese, ha superato un colloquio di lavoro come corriere, ma un ritardo nella verifica dei documenti ne impedisce l’assunzione, per cui pensa di far ritorno a casa, così da aiutare la madre prossima alla pensione, eventualità che non trova d’accordo il compagno…
Per quanto il cortometraggio di Nordli non mi abbia particolarmente entusiasmato, trovandolo del tutto simile ad altre opere sull’argomento nella sua convenzionalità descrittiva della situazione pandemica (il contrasto tra esterno ed interno nel proseguo della quotidianità, il mantenimento delle relazioni grazie alla tecnologia, la fragilità di un sistema che impone progresso materiale e benessere generalizzato), ritengo comunque che possa vantare qualche freccia al suo arco.
Penso al realismo profuso nelle riprese, che funge da testimonianza storica nel “fare memoria” di un accadimento già divenuto “ieri” e che sarebbe bene far sì che non venga avvolto dall’oblio, come da consueta e triste abitudine, ma soprattutto al senso di umanità che pervade la narrazione, con un finale che sembrerebbe indicare il passaggio verso un’inedita dimensione da conferire alla nostra esistenza, in nome di una concreta condivisione.
InCONTROtempo, Sezione Afterword, scritto, insieme ad Annalisa Andreoli, e diretto da Manuel Amicucci, rientra tra le opere visionate che mi hanno maggiormente coinvolto e affascinato.
Ho rinvenuto infatti un attento lavoro di scrittura, incline sia a gestire il non detto quale trainante elemento narrativo, sia a rendere la visualizzazione di un’atmosfera come sospesa nel tempo e circoscritta in un determinato spazio, in forza di un sinergico lavoro tra regia, fotografia (Claudio Zamarion) e colonna sonora (Annalisa Andreoli, Tatiana Mele, Massimiliano Lazzaretti).
Noi spettatori veniamo quindi resi partecipi del profondo dolore, insinuante ed oppressivo, che affligge Lorenzo (Amicucci), nel fluire di una quotidianità che lo vede detenuto in carcere, dove neanche l’attività manuale in una segheria riesce a distoglierlo dal martellante ricordo di un evento traumatico, il terremoto che colpì L’Aquila, nell’impossibilità di fornire aiuto alle persone care, nel tormento poi di essere padre di una figlia mai vista, colpevolmente abbandonata, cui cerca invano di telefonare, mettendo giù tra le lacrime la cornetta.
Nulla possono le parole di conforto del compagno di cella, Andrea (Roberto Fazioli), il quale però si farà latore, una volta scontata la pena, nel perpetrare un riscatto di Lorenzo attraverso il ricordo.
Anche The Misanthrope, Sezione Afterword, scritto e diretto da Andy Kastelic, è una realizzazione che mi ha particolarmente colpito, a partire dall’ambientazione, che ha come scenario un sabbioso deserto, probabilmente da qualche parte negli Stati Uniti d’America, le cui molti croci disposte in filari lo hanno ormai trasformato in un grande cimitero, dove trovano sepoltura quanti sono stati colpiti da un misterioso morbo.
A svolgere l’infausto compito di becchino l’incupito e rabbioso Jeb (Kastelic), che ha dovuto anche seppellire l’amata moglie Kitty (Sarah Minnich), il cui ricordo, dalla consistenza onirica vagante tra incubo e miraggio, lo accompagna nel triste lavoro.
Vi sono persone che hanno perduto i loro cari e si avvicinano a quel luogo desolato portando ciascuno un fiore e declamandone la rimembranza di quel che erano in vita, ma Jeb ha imposto il divieto assoluto di recare su quelle tombe qualsiasi “corrispondenza d’amorosi sensi”…
Il lavoro congiunto tra l’incisiva regia di Kastelic e la fotografia di Jennis Schelenz offre un congruo senso di visionarietà nell’ambito del desolato panorama, per un corto che, sostenuto anche dalla colonna sonora, alterna con scioltezza parole e immagini, così da offrire proscenio ad una lucida ed amara metafora sul senso da attribuire alla nostra esistenza, fino a ritrovare, tra compassione empatica e concreta misericordia, l’incanto della primavera perduta.





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