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C’era una volta, in un villaggio dell’Africa subsahariana, una famiglia composta da tre persone: la madre, a letto gravemente ammalata, e i suoi due figli, Eno (Mabye Serigne Fallou), 6 anni, e Bekisisa ( Mabye Fatou Ndeye), 12, che l’assistevano amorevolmente, dovendo fare ogni giorno i conti con la scarsità di acqua, da attingere presso un lontano pozzo, e di cibo. Qualche tempo addietro erano migrati in Italia, paese dal quale venivano però espulsi causa il comportamento paterno.

La donna, ormai morente, esprimeva il desiderio che i due fratelli vi facessero ritorno, avrebbero potuto trovare ospitalità a Roma da zio Fallou, evocando, poco prima di addormentarsi per sempre, la protezione di Dio sulla prole, per tutti quei pericoli che avrebbero certo incontrato nel corso del lungo e pericoloso viaggio.

E così, provveduto alla sepoltura dell’adorata mamma, Eno e Bekisisa iniziavano il loro cammino, arrivando infine in Italia, ma distanti dalla meta stabilita. Trovavano quindi rifugio all’interno di una fabbrica dismessa, abitata da tanti bambini di varia etnia, come loro fuggiti da condizioni di vita impossibili o comunque difficili, i quali avevano messo su una vera e propria comunità, con tanto di determinate regole a scandire la quotidianità, in primo luogo il darsi da fare per poter aver diritto al pasto quotidiano.

Qui Bekisisa conosceva il coetaneo Alaba (Crispin Shadrak Nyangala), col quale andava a stringere una forte amicizia, così da superare insieme varie vicissitudini, a partire da quelle conseguenti all’incombere della minaccia del terribile Giggetto (Nicola Rignanese), a capo di un’organizzazione che intendeva sfruttare i bambini quale manodopera a basso costo. 

Ma al mondo, fortunatamente, esistono anche persone buone, come l’attrice, ora apicoltrice, Iaia (I. Forte), che si prodigava nell’assistere i fratellini. Inoltre lo spirito della madre aleggiava sempre  su di loro, manifestandosi in varie forme, evocato dal canto di Bekisisa, aiutandoli a superare i  tanti ostacoli disseminati lungo il cammino.

Ho volutamente cercato di descrivere in forma di fiaba la trama di Oltre il confine, scritto e diretto da Alessandro Valenti e in distribuzione nelle nostre sale da qualche giorno, dopo essere stato presentato al Giffoni Film Festival nel 2022, poi al Sotto18 Torino Film Festival e infine al Montréal Film Festival ( e qui premiato come Miglior Film), perchè, a mio avviso, tale modalità rappresenta la chiave di lettura più idonea riguardo quanto messo in scena dall’autore.

Si intende infatti offrire risalto allo sguardo dei bambini nei confronti di quanto li circonda, che appare così trasmutato dall’intervenuta mediazione offerta dall’apporto congiunto di innocenza e purezza.

Ecco allora che le sequenze iniziali, dal dialogo tra la madre e i figli, passando per la sua morte e sepoltura, fino all’inizio del viaggio, evidenziano una intima correlazione tra ambiente e personaggi, con una connotazione maggiormente realistica, a simboleggiare il forte legame con la terra d’origine quale congruo nido protettivo, nonostante l’indigenza e le precarie condizioni esistenziali.

Ad una immersione dei due fratelli nelle acque di un fiume per sfuggire agli attacchi degli animali selvatici segue, simbolicamente, la loro emersione, insieme ad altri migranti, dal mare antistante le coste italiche, dando così il via ad una narrazione che ora assumerà per l’appunto il tono proprio di una moderna fiaba, a partire dallo schematismo, del tutto funzionale, nel contrapporre bene e male.

Quest’ultima caratteristica appare evidente nel tratteggio dei cattivi capeggiati da un  Rignanese platealmente sopra le righe nell’interpretare l’orco cattivo, mentre risulta suggestiva e poetica la figura di donna delineata da Iaia Forte, fata salvatrice e madre protettiva, così come l’intervento di uno spirito naturista a salvare i bambini, una volta edotti della presenza dei pericoli cui potranno sempre andare incontro, necessaria tappa di maturazione, confidando sulle proprie forze e l’affetto delle persone loro vicine.

Una realizzazione, andando a concludere, che pur con qualche evidente richiamo cinefilo apprezzabile dagli adulti (il cavallo rinvenuto da Eno e cavalcato insieme a Bekisisa, riferimento a Sciuscià, Vittorio De Sica, 1946), si rivolge precipuamente ai più giovani, offrendo loro un linguaggio puro e diretto, scevro da retorica, così da fargli comprendere quanto possa essere necessario ed urgente instaurare “l’accoglienza delle regole” ancora prima che le “regole dell’accoglienza” per quanti vivono l’esperienza traumatica di abbandonare il paese d’origine e giungere infine in un luogo a loro sconosciuto, in cerca di migliori opportunità.

Siamo tutti uguali in quanto tutti diversi, e l’elemento culturale costituito dall’incontro dei differenti modi d’atteggiarsi nei confronti della quotidiana esistenza va a costituire il collante necessario per delineare il definitivo recupero di un termine che sembrerebbe destinato a  divenire ormai desueto, anche per quanti declamano al cielo la fierezza di essere cristiani, ovvero “umanità”, e la triste cronaca di ogni giorno è lì a ricordarcelo.

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