
Italia, giorni nostri. Giulia (Aurora Giovinazzo), giovane lottatrice di MMA (Mixed Martial Arts), ha abbandonato l’attività sportiva una volta sconfitta da Vanessa Beauty Killer (Désirée Popper), un duro e violento incontro nel corso del quale ha perso il bambino che aveva in grembo, frutto della relazione con il compagno Alessandro (Brando Pacitto), insieme al quale gestisce una struttura destinata ad accogliere animali maltrattati, denutriti o sottratti al traffico illecito, in attesa di un finanziamento per dare vita ad un parco safari all’avanguardia.
Ambedue hanno un tormentato passato alle spalle, ancora da metabolizzare: Giulia è cresciuta in una comunità d’accoglienza dopo il decesso dei genitori, perdita che ha interessato anche Alessandro, dopo un incidente stradale che lo vedeva alla guida dell’automobile. Frequentano un gruppo religioso con a capo Padre Agostino (Fabrizio Ferracane), il quale ha ormai plagiato il ragazzo nel prospettargli il sentiero a suo dire salvifico da intraprendere, tramite le tappe del matrimonio e del mettere su famiglia, fino a suggerirgli di fingere nell’assecondare la volontà della compagna di ritornare a combattere, conseguente ad un colloquio con l’allenatore Salvo (Patrizio Oliva), potendo ora contare sull’apporto di una nuova allenatrice, Serena (Valeria Solarino), anche lei con dei trascorsi, sportivi ed umani, elaborati a fatica nel corso degli anni.
Presentato alla 18ma edizione della Festa del Cinema di Roma all’interno della sezione Alice nella Città (Panorama Italia – Proiezioni Speciali), The Cage- Nella gabbia vede alla regia l’esordiente, nei film di finzione dopo i trascorsi documentaristici, Massimiliano Zanin, anche autore della sceneggiatura insieme a Claudia De Angelis e Vittorio Alonzo.
La visione del film mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca per via di un andamento narrativo fin troppo ponderato e derivativo nell’andare a visualizzare il classico “solo chi cade può risorgere”, con lo sport a costituire un valido sprone al riscatto individuale e sociale, sviluppato in parallelo all’altrettanto noto refrain “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo” (Fabrizio De André, La città vecchia, 1965).
Sono comunque rimasto piacevolmente persuaso dalla resa visiva della messa in scena: si offre infatti congrua concretezza all’allegoria precipua inerente al termine “gabbia” presente già nel titolo, un recinto che costituisce la struttura idonea ad ospitare il combattimento, certo, ma anche le tante inferriate che ogni giorno innalziamo per circoscrivere le nostre insicurezze esistenziali, nel timore di affrontarle ed aprirci alla vita.
Oppure quelle messe su da persone a noi vicine per delimitare il possesso di ciò che si ritiene di propria appartenenza, impedendoci di esprimere personalità ed attitudini che non siano conformi al volere altrui, ricorrendo anche alla violenza, fisica o psicologica.
La suggestiva integrazione tra regia, per quanto non sempre propriamente incisiva, fotografia (Gianni Chiarini), colonna sonora (Motta, Danno, L’Aura) ed interpretazioni attoriali, rimarcando al riguardo in particolare tanto la corporeità quanto l’estrema sensibilità offerta da Aurora Giovinazzo alla “sua” Giulia, offre un certo risalto tanto alle caratteristiche psicologiche dei personaggi, emergenti gradualmente nel corso della narrazione, quanto alle tematiche inerenti alla violenza di genere e all’emancipazione ed autodeterminazione femminile, in tale ultimo caso anche nell’ambito della libera espressione della propria sessualità.
Ecco allora emergere la gretta personalità di Alessandro, propensa ad un subdolo gaslighting , già espresso nei suoi riguardi da Padre Agostino, cui Ferracane offre un risvolto sinistro nel dare adito ad una tradizionalità familistica imposta da un credo indottrinato, lontano sia dalla realtà che dalla misericordia evangelica.
Il tutto contornato da un’opportuna atmosfera che rifugge, fortunatamente, da caratterizzazioni meramente identificative riguardo le location, delineando piuttosto il sentore di una storia che intende farsi universale nel dare adito alle descritte tematiche che vengono in essere nello svilupparsi di situazioni e accadimenti, un altro punto a favore di una pellicola che avrebbe certo meritato maggiore originalità di scrittura e qualche guizzo in più relativamente alla regia, così da andare oltre il mero afflato visivo.
(Già pubblicato, il 22/02/2024, sul sito Lumière e i suoi fratelli)






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