
La bocca dell’anima, in distribuzione da qualche settimana nelle nostre sale dopo l’anteprima al 70mo Taormina Film Festival, rappresenta il felice esordio nei lungometraggi di finzione del regista Giuseppe Carleo, anche sceneggiatore insieme a Carlo Cannella, dopo i trascorsi nei cortometraggi e nei documentari. Il soggetto trae ispirazione da una storia vera e soprattutto dai testi dell’antropologa Elsa Guggino (La magia in Sicilia e Il corpo è fatto di sillabe).
La narrazione prende il via nell’inverno del 1949, quando fa il suo arrivo a Pietrasanta, comune dell’entroterra siciliano innevato e sferzato dal vento, un uomo in divisa (Maziar Firouzi), emaciato e trasandato, barba e capelli lunghi, intorno al quale si raduna, una volta svenuto, una piccola folla. Viene riconosciuto dalla fidanzata Angela Caruso (Marilù Pipitone), trattasi di Giovanni Velasques, reduce dal Secondo Conflitto, che viene quindi condotto nell’abitazione dove la donna vive con la sua famiglia, così da somministrargli i primi soccorsi e rimetterlo in sesto.
Ma la guerra ha lasciato nell’animo di Giovanni un profondo malessere, un trauma che ne squassa membra e psiche. Verrà allora condotto dalla majara del paese, Mariannina (Serena Barone), che trasmuterà quel profondo dolore che si porta dentro, la morte dell’ amico milite Eric Marchese (Vincenzo Amato), dal cui spirito il nostro è posseduto, nei poteri propri di un mago, in virtù dei quali elargirà guarigioni materiali e spirituali ai paesani.
Ma presto Giovanni, che andrà a sposarsi con Angela, dalla quale avrà un bambino, dovrà fare i conti con il controllo del suo particolare dono e con i malanimi delle istituzioni locali, Padre Pino (Maurizio Bologna) e il mafioso Don Minicu (Claudio Collovà), che vedono il loro potere vacillare di fronte ad uno spirito libero, non avvezzo ad assoggettarsi…
Carleo rivela già dalla sequenza di apertura una pregevole padronanza del mezzo cinematografico, allontanandosi dalla consueta visone cartolinesca di una Sicilia tutta mare cristallino, sole a picco e rigogliosi fichi d’india, in sinergia con la fotografia di Leone Orfeo, che dà vita ad un pregnante legame tra territorio e personaggi. Pregevole poi, ai fini dell’avvolgente resa visiva, la cura riservata a costumi (Dora Argento) e scenografie (Laura Inglese).
Il paese di Pietrasanta si rende così adeguato proscenio per una disamina delle antiche tradizioni isolane, indagine che assume una consistenza animistica e un concreto rilievo antropologico, anche in virtù di una colonna sonora (Paolo Brignoli) volta a riprendere i canti intonati in occasione di determinate festività, oltre a rimarcare funzionalmente la tensione narrativa.
La bocca dell’anima, “la vucca i l’arma”, per stessa precisazione dell’autore, sta ad indicare il plesso solare, il punto del corpo fulcro dei movimenti vitali, residenza degli esseri che possiedono il mago e gli concedono i poteri salvifici, ma è anche adusa ad ospitare il male.
Attraverso l’acquisizione delle facoltà guaritrici Giovanni elabora quindi il proprio trauma, una sorta di espiazione di un particolare evento che lo lega a quel soldato che conobbe a Pantelleria, probabile “rosa non colta” come sembrerebbe evincersi dal suggestivo finale, dispensando però salvezza nei riguardi di quanti si rivolgono a lui per la guarigione da malesseri che, pur se inerenti la corporeità, sono sempre frutto di maldicenze, invidie e “malo occhio”.
Non sono quindi risolvibili da un “comune” dottore, almeno secondo il radicamento proprio di una tradizione atavica, che vede l’impiego di erbe comuni e formule magiche. La povera gente si sente così meno sola e disagiata, potendo fare affidamento su qualcuno che ne allieva le ambasce.
Pur se qua e là è evidente qualche incrinatura nella sceneggiatura, in particolare, almeno a mio avviso, tra la parte centrale e quella conclusiva, con più di un affanno a chiudere definitivamente il cerchio, La bocca dell’anima si riscatta con la bellissima sequenza finale cui si è accennato nel corso dell’articolo, intesa ad illustrare un ricordo densamente onirico, suggerendo la possibilità di una conciliazione definitiva con la propria vera essenza solo ove si prenda la distanza da qualsiasi vincolo inteso ad istituzionalizzare emozionalità e sentimenti nei ranghi di una asfissiante normalità uniformatrice.
(Già pubblicato sul sito Lumière e i suoi fratelli. Cultura cinematografica e crossmedialità). Immagine di copertina fornita da Ufficio Stampa.






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