(Movieplayer)

Joker: Folie à Deux, presentato, in Concorso, alla 81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, non è da considerarsi, ad avviso di chi scrive,  un vero e proprio sequel, almeno non nel senso più puramente hollywoodiano del termine, di quel Joker che cinque anni orsono conseguì in Laguna il Leone d’Oro come Miglior Film. La regia è sempre di Todd Phillips, autore della sceneggiatura insieme a Scott Silver, così come Joaquin Phoenix riveste nuovamente i doppi panni di Arthur Fleck/Joker, per una interpretazione sentita, toccante, vibrante di una ancora maggiore resa immedesimativa.

La narrazione, piuttosto diretta e realistica, merito anche della sinergia tra la  torbida fotografia (Lawrence Sher), le scelte scenografiche (Mark Friedberg) e relative ai costumi (Mark Bridges),  mi è parsa del tutto libera da particolari schemi o convenzioni, intesa a creare una visualizzazione di quel disturbo psicotico condiviso che dà il titolo al film, ovvero il trasferimento di credenze deliranti, insieme o in alternativa ad atteggiamenti anomali, da un individuo affetto da delirio o schizofrenia verso un’altra persona o gruppo di persone.

Quanto scritto è esplicato da un bel prologo reso in animazione che vede Fleck in lotta con la sua ombra, la quale intende, riuscendoci, prendere il suo posto sotto le luci della ribalta, truccato da Joker, per poi materializzarsi tra le mura dell’Arkham State Hospital, dove il nostro è rinchiuso in attesa del processo che ne stabilisca la responsabilità per i suoi delitti, assistito dall’avvocata Stewart (Catherine Keener), decisa ad invocare l’infermità mentale, nella fattispecie un disturbo dissociativo dell’identità.

All’interno della lugubre struttura, la “follia a due” sarà quindi messa in atto da Harleen Lee Quinzel (Lady Gaga), in rappresentanza di una società che ha coltivato l’idea del Male non solo nella veste “classica” di quella metà oscura che giace latente in ciascuno di noi, ma anche quale frutto dell’incapacità di porre in essere un’effettiva linea  di demarcazione con il Bene, tendendo piuttosto ad avvicinare i confini tra le due entità, sino a confonderli. Una volta conosciuto Fleck nel corso di una seduta di musicoterapia, Lee andrà ad instaurarvi un rapporto affettivo, nell’intento, fingendo empatia e comunanza d’intenti, di far venire fuori  il Joker che è in lui. 

Senza rivelare altro della trama, vado comunque a riportare, come al solito, la precipua sensazione avvertita nel corso della visione, coincidente in buona parte con quella relativa al film del 2019, ovvero di come regia, sceneggiatura, comparto tecnico, si prodighino nel mettere  in scena una sorta di straniante sospensione allucinatoria, per cui quanto si materializza sullo schermo  appare a volte essere frutto di una malata mescolanza tra realtà ed immaginazione, la cui nebbia può trasformare qualsiasi gesto o comportamento in qualcos’altro.

Ecco allora l’innesto su di un prison movie/procedural drama, volendo catalogare l’andare a briglia sciolta degli autori in qualche genere, dei numeri da musical, che vedono Fleck/Joker e Lee cimentarsi in danza e canto. Nel loro essere stranianti, prendendo le distanze dagli stilemi figurativi “istituzionali” (non a caso, credo, si cita The Band Wagon, 1953, Vincent Minnelli), assumono per l’appunto la consistenza di una densa coltre delirante intesa a mutare la percezione del reale, The world is a stage, the stage is a world of entertainment! (dal brano That’s Entertainment!, presente nel musical citato e ripreso da Phoenix e Lady Gaga).

Di rilievo al riguardo l’apporto di Hildur Guðnadóttir alla colonna sonora, che accosta alle descritte esecuzioni uno struggente ed inquietante motivo sonoro. Quindi Joker: Folie à Deux intende essenzialmente decostruire il mito, cinematografico e meta cinematografico, relativo alla nascita di un villain (Ho il vago sospetto che non stiamo dando al pubblico quello che vuole, declama Fleck/Joker in una sequenza).

Phillips ci obbliga ad entrare nella mente di Arthur, considerando qualsiasi accadimento, reale o presunto tale, nell’ambito della sua personale visione delle cose. Se in Joker Arthur tendeva a plasmare la propria immagine sulla base delle aspettative materne, oppure memorizzando quanto messo in scena dai cabarettisti che seguiva nelle  loro esibizioni, configurando una sinistra maschera, adesso il suo percorso di formazione sembrerebbe volto all’accettazione di sé e nel rendere percepibile l’intima essenza, la sua vera personalità, ponendo fine a tutta una serie di compiacimenti messi in atto per essere accettato ed apprezzato all’interno di un nucleo sociale al cui interno vige un distorto criterio d’eguaglianza.

Quest’ ultimo appare basarsi sulla negazione di quello che in realtà dovrebbe costituirne il valore fondante, ovvero la comprensione e la valorizzazione delle caratteristiche, fisiche, psichiche, comportamentali, proprie di ciascun individuo. Morto un Joker se ne fa un altro, in quanto, citando e parafrasando il titolo di una famosa opera di Goya,  il sonno di una smarrita umanità, proprio di quella massa indistinta adusa ad approvare una qualsivoglia esternazione violenta incline a trasmutare  il malcontento in rivalsa, non può che generare mostri, fino a giungere alla messa in atto di  un sinistro gioco di specchi, quello fra il proprio io e  il proprio straniamento sociale.

Immagine di copertina: Movieplayer

Una replica a “Joker: Folie à Deux”

  1. Grazie ho amato il primo non mancherò il sequel 🌹🐈‍⬛

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