
Amiche lettrici e amici lettori, il prossimo ricorrere dei cinquant’anni del capolavoro (una volta tanto credo che il termine possa definirsi appropriato) di Mel Brooks, Young Frankenstein, distribuito negli Stati Uniti 15 dicembre 1974, e la triste notizia della recente scomparsa (lo scorso 29 ottobre) di Teri Garr, che nel citato film interpretava Inga, assistente del professor Frederick Frankenstein (un superlativo Gene Wilder), attrice eclettica, a suo agio in vari generi ma in particolare nel comico, in virtù di una suadente mimica spesso sfociante in un particolare sorriso, mi hanno invogliato a rivedere l’opera in questione (in versione originale, per mia curiosità, pur amando il doppiaggio italiano) e riscrivere una recensione, elaborando ed approfondendo un mio articolo di vari anni fa.

Stati Uniti d’America, anni ’30. In un’aula universitaria si sta svolgendo la lezione di neurologia del professor Frederick Frankenstein (Gene Wilder), nipote del famoso Victor von Frankenstein, dal quale il nostro intende però mantenere le distanze, già dalla pronuncia del cognome (Fronkensteen) e proseguendo con la confutazione delle teorie relative alla possibilità di ridar vita ad un cadavere intervenendo opportunamente sul sistema nervoso centrale, come gli rammenta uno zelante studente. A lezione terminata, gli si avvicina tale Herr Gerhardt Falkstein (Richard Haydn), un avvocato proveniente dalla Transilvania, per renderlo edotto del lascito testamentario del bisnonno, il barone Beaufort von Frankenstein.
E così Frederick, salutata la fidanzata Elizabeth (Madeline Kahn), tra slanci passionali trattenuti e promessa di amore eterno, si mette in viaggio per la Romania. Una volta giunto sul posto trova ad accoglierlo Igor (Marty Feldman), gobbo e dallo sguardo “acceso”, che ha ereditato il ruolo di servitore dal nonno, e la giovane Inga (Teri Garr), che gli farà da assistente. Attraverso la brumosa e fitta boscaglia, dove risuonano sinistri ululati, giungeranno al maniero dei Frankenstein, che si erge minaccioso su una collina. A fare gli onori di casa la governante Frau Blücher (Cloris Leachman), che li accoglierà con fare cerimonioso ed inquietante al contempo.
Sarà proprio lei a far sì che Frederick, sul quale la particolare atmosfera della dimora sembra suscitare tanto profonda inquietudine quanto una certa curiosità, venga a conoscenza del laboratorio segreto del nonno e della libreria personale, dove è custodito un diario con tutte le annotazioni relative ai suoi studi sulla possibilità di ridare la vita ad una creatura morta… “It Could Work!”, “Si può fare!”. E quindi, una volta procuratosi con l’aiuto di Igor un cadavere di rispettabili proporzioni (maggiore è la grandezza di arti ed organi, più facile sarà lavorarci su), dato l’incarico al servitore di trafugare il cervello di tale Hans Delbruck “santo e scienziato” da un laboratorio, e seguendo alla lettera le “istruzioni per l’uso” scritte dall’avo, la Creatura(Peter Boyle) del redivivo Dr. Frankenstein potrà risorgere a vita nuova…peccato solo che Igor abbia reso il cervello di Delbruck inservibile, sostituendolo, tacendo sull’accaduto, con quello di tale Abbey Normal…
A cinquant’anni di distanza dalla sua uscita nelle sale, Young Frankenstein, scritto da Gene Wilder insieme a Mel Brooks, regista, rivela ancora una volta, forse con una vitalità ancora maggiore considerando quello che oggi passa il convento (felici eccezioni a parte, ovvio, per quanto sempre più sporadiche), tutta la sagacia inventiva dei suoi autori, nonché l’accurata messa in scena e la compiuta coralità dell’intero cast ad avvalorare dialoghi intrisi di una comicità mediata tra il tradizionale umorismo yiddish, sottile e pungente, e lo stile proprio delle comiche di un tempo (gli sguardi in camera, a cercare la complicità degli spettatori), idonea a dar vita ad un particolare unicum, foriero di sane risate.

In particolare, ancor prima che palesarsi come una ragionata parodia, credo riesca ad offrire profonda concretezza tanto alla forma di una rivisitazione – omaggio del mito della Creatura nata dalla penna di Mary Shelley nel 1818 (Frankenstein; or, The Modern Prometheus), quanto una nostalgica citazione delle pellicole visionate dagli autori al tempo della loro fanciullezza (la stupenda fotografia in bianco e nero di Gerald Hirschfeld, i caratteristici passaggi in dissolvenza tra le varie sequenze), nonché, come dichiarò Wilder nel corso di un’intervista, dei primi quattro film dedicati dalla Universal al mad doctor e alla sua Creatura, Frankenstein (James Whale, 1931), Bride of di Frankenstein (1935, sempre Whale), Son of Frankenstein (Rowland V. Lee, 1939) e The Ghost of Frankenstein (Erle C. Kenton,1942), dai quali vengono ripresi personaggi ma anche buona parte delle scenografie, vedi il laboratorio, con tutte le sue attrezzature, che è, infatti, quello concepito per il primo titolo da Kenneth Strickfaden.

Ogni personaggio ha una sua precisa caratterizzazione, la cui resa interpretativa va ad integrarsi sinergicamente, creando contrasti ironici e situazioni comiche, con quella offerta da quanti vi andranno ad interagire. Ecco allora il Dottor Frankenstein di Gene Wilder, fare compassato e sguardo luciferino (indimenticabile la sua trasformazione in scienziato folle, una volta accettata definitivamente la tanto vituperata discendenza), e i dialoghi con la fidanzata Elizabeth, cui Madeline Kahn offre un particolare contrasto tra elegante, glaciale, esteriorità e passionalità latente (difende il fortino intonando The Battle Hymn of the Republic, Julia Hard Howe,1862, autrice del testo, riprendendo la musica dalla canzone John Brown’s Body) per poi passare alla vibrante Ah Sweet Mistery of Life ( dall’operetta Naughty Marietta,1910, libretto di Rida Johnson Young e musica di Victor Herbert), una volta presa conoscenza degli “ardenti palpiti”.
Ecco poi l’interazione, ad alto tasso surreale, con lo stralunato Igor, uno scatenato Feldman, tra sguardo strabuzzante e gobba mutevole di posizione (“gobba, quale gobba?”) e quella con la sensuale Inga, resa da Teri Garr con ironico e candido trasporto erotico (dalla proposta di rotolarsi nel fieno al momento del primo incontro, alla prospettiva di un enorme schwanzstuck considerando le proporzioni gigantesche della Creatura, fino alla soluzione di come poter consolare il buon Frederick dalle sue pene in virtù di una opportuna “discussione filosofica”). Indimenticabile la governante “in stile Dennie Danvers” (Rebecca, Alfred Hitchcock, 1940) come credo notato da molti, interpretata magnificamente da Cloris Leachman, al cui nome ogni cavallo non può che lanciare nitriti di terrore, ed ovviamente lo stesso vale per il “mostruoso” Peter Boyle.

Quest’ultimo regala alla Creatura uno straniante afflato fanciullesco (non a caso la musica che lo attrae è simile ad una struggente ninna nanna), con risvolti sempre sospesi tra drammaticità ed ironia (l’incontro con una bambina e soprattutto con l’eremita non vedente, Gene Hackman). Un po’ sopra le righe, ma aderente al contesto della spigliata sarabanda posta in scena, la figura dell’ispettore Kemp (Kenneth Mars), con più di un riferimento, credo, nel suo linguaggio incomprensibile e convulso, a certa “réclame” teutonica d’hitleriana memoria.
Tante le sequenze da incorniciare (tra le mie preferite, l’addio alla stazione tra Frederick ed Elizabeth, il tragitto verso il castello, il numero di tip tap eseguito dal dottore e dal “mostro” sulle note di Puttin’ on the Ritz, 1927, Irving Berlin), con un finale a suo modo sorprendente che pone sarcasticamente inediti parametri nel confronto tra “normalità” e mostruosità”, dopo essersi fatti beffe a piè sospinto nel corso della narrazione di varie convenzioni sociali, dalle eredità familiari alla sessualità circoscritta nel talamo nuziale.
In chiusura, da ricordare, come già riportato in vari testi ed articoli, il rilevante lavoro messo in atto dal doppiaggio italiano (curato da Roberto De Leonardis, eseguito alla International Recording con la partecipazione della C.V.D. e diretto da Mario Maldesi) nell’adattare felicemente al nostro idioma le tante battute nonsense, come la celebre lupo ululà, castello ululì, che in originale partiva dall’esclamazione di Inga nel sentire un ululato, Werewolf!, ripetuta da Frederick e a cui Igor dava come risposta, intendendo where wolf, There wolf, there castle o, tra le tante felici intuizioni, l’aria Sempre libera degg’io / folleggiare di gioia in gioia (primo atto della Traviata di Giuseppe Verdi, 1853) a sostituire l’intonazione goduriosa del citato brano Ah Sweet Mistery of Life.






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