
Film di apertura del Balkan Film Festival di Roma, proposto dalla Bosnia – Erzegovina all’ Academy per concorrere agli Oscar® 2024 come Miglior Film Internazionale dopo aver conseguito, tra l’altro, una Menzione Speciale al 76mo Locarno Film Festival, dove ha aperto la sezione Cineasti del Presente, La gita scolastica è scritto e diretto da Una Gunjak, al suo esordio nei lungometraggi. L’autrice prende spunto da una storia vera per mettere in scena al contempo un racconto di formazione e un atto di denuncia nei riguardi della società bosniaca, idoneo comunque ad assumere valenza universale. Emerge infatti nel corso della narrazione quel moralismo d’accatto proprio dei tanti sepolcri imbiancati che, spesso sotto l’egida della religione, giudicano a piè sospinto determinati comportamenti inerenti la sessualità e il genere sulla base di parametri precostituiti dal retrogusto ancestrale, giudicando senza provare minimamente a comprendere desideri e necessità di ogni individuo in quanto tale e delle giovani generazioni in particolare.
L’evento reale cui si è accennato ebbe luogo a Banja Luka nel dicembre del 2014, quando un gruppo di sette studentesse tredicenni divenne oggetto delle attenzioni dei media nazionali e ancor prima dei giudizi della comunità locale, essendo tornate incinte da una gita scolastica. Un caso che assunse notorietà internazionale e la cui risonanza andò a coprire quello che doveva essere il precipuo interesse, ovvero provare a capire cosa fosse realmente successo e perché. L’azione filmica prende il via in una scuola media di Sarajevo, dove il consiglio dei professori sta valutando l’opportunità di organizzare o meno una gita scolastica, rammentando appunto gli eventi di 9 anni fa. Se ne discute anche tra un gruppo di ragazze e ragazzi che frequentano la struttura, compagni di classe, amici, mentre organizzano il classico gioco “obbligo o verità”, nel corso del quale la tredicenne Iman (Asja Zara Lagumdžija) rivela di aver fatto l’amore con un ragazzo di cui è infatuata, di poco più grande.

Una bugia apparentemente di poco conto, buttata lì forse per atteggiarsi nei confronti delle amiche o dare concretezza a quanto la fantasia ha dato adito riguardo i normali desideri propri di un organismo in crescita, che però assumerà proporzioni sempre più consistenti, alimentandosi via via, in forza anche dell’ausilio dei social media, di pettegolezzi, stigmatizzazioni di varia natura, esibita pruderie da benpensanti, coinvolgendo insegnanti e genitori, fino a far emergere antichi retaggi la cui persistenza è dura a morire. Gunjak nello scegliere la via del realismo, coadiuvata da una fotografia (Matthias Pilz) che predilige la luce naturale, in particolare nei primi piani su edifici e volti, ed un montaggio (Clémence Diard) assecondante un andamento episodico, pone la macchina a mano all’altezza della protagonista, interpretata con naturale trasporto immedesimativo da Asja Zara Lagumdžija, attrice non professionista (come il resto del giovane cast).
Ne riprende così ogni azione o atteggiamento messo in atto e le conseguenze che andranno a riversarsi nell’ambito scolastico e sociale, operando quale congrua cartina di tornasole nello svelare ipocrisie e sottesi pregiudizi propri di una concezione patriarcale sempre pronta a venir fuori, polvere sotto il tappeto di una irreggimentata “normalità”. Concezione retrograda che trova poi buona compagnia nell’affermazione pressoché definitiva di un progresso puramente materiale, tecnicistico, fondato sul possesso di determinati beni di consumo, orfano di una concreta evoluzione riguardo l’aspetto propriamente umano. Se Iman, il cui aspetto fisico rivela, credo emblematicamente, tratti maschili e femminili insieme, sembra assecondare con naturalezza le citate proporzioni che la sua bugia andrà ad assumere, buona parte della propria cerchia amicale, asserragliata nel recinto social quale porto franco, e i vari adulti esterneranno al riguardo tutta l’acredine propria di chi dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio, citando Fabrizio De André (Bocca di rosa, 1967).

La speranza di una differente mentalità ritengo sia rappresentata dalla figura della madre di Iman, che mette in atto quanto sarebbe doveroso fare, cercare la verità personale, informarsi su cosa rappresenti la sessualità per la figlia, se abbia o meno preso consapevolezza di come gestirla, quali siano i suoi desideri, le sue aspettative, cosa guidi i suoi comportamenti. Finale per certi versi aperto, in linea col doppio binario narrativo, con Iman tendente alla consapevolezza riguardo una possibile e del tutto personale emancipazione, idonea a condurla verso la libertà e la felicità, e la società pronta a festeggiare un 8 marzo a suon di omaggi floreali di prammatica e retorica in offerta speciale, consueto velo ipocrita steso su quella retriva stolidità, maschilista precipuamente, purtroppo tuttora rinvenibile in vari settori della nostra società, anche, se non soprattutto, in subdole forme latenti.
Una stoltezza che rende difficile annientare definitivamente qualsivoglia negatività intesa ad impedire quella effettiva emancipazione, individuale e collettiva, volta all’autodeterminazione, e consona al poter scegliere, con sempre maggior forza e convinzione, nell’unità d’intenti tra uomini e donne, la propria essenza vitale, individuale, sociale e lavorativa.
Già pubblicato su Lumière e i suoi fratelli-Cultura cinematografica e crossmedialità – Immagine di copertina: Ufficio Stampa





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