
C’era una volta Rozzum 7134, confidenzialmente Roz, una robot, facente parte, insieme ad altri suoi simili, del carico di una nave cargo della Universal Dynamics, andata a naufragare, nel corso di un violento tifone, nei pressi di un’isola, popolata esclusivamente da animali di varie specie, spesso costituenti reciproca fonte di cibo. Unica sopravvissuta, eccola chiedersi, una volta che i suoi circuiti venivano attivati fortuitamente, quale compito potesse mai svolgere in quel luogo, non rinvenendo nella sua programmazione qualcosa che potesse esserle d’ausilio. Considerata nient’altro che un essere mostruoso da cui prendere le distanze, Roz giungeva alla decisione di inviare un messaggio d’aiuto alla centrale di comando, in modo da organizzare il suo recupero, ma, dopo essere stata colpita da un fulmine, aggredita da un branco di procioni ed inseguita da un orso grizzly, finiva col cadere su un nido di oche, uccidendone i componenti e la covata, tranne un uovo, che salvava dalle grinfie di una volpe affamata, Fink, consentendone così la schiusa e conseguente nascita di un’ochetta, cui dava nome Brightbill (Beccolustro), divenendone la madre.
D’altronde, imprinting a parte, come le suggeriva la opossum Pinktail (Codarosa), non vi è nulla di programmato al riguardo, “improvvisiamo”… E così Roz si adoperava nell’insegnarle a volare, con l’aiuto di Fink e del falco Thunderbolt (Fulmine), in modo che potesse unirsi alle altre oche in vista della migrazione invernale, guidata dall’anziano Longneck (Collolungo)… Confesso di essermi accostato alla visione di The Wild Robot, prodotto dalla DreamWorks Animation per la regia di Chris Sanders, anche autore della sceneggiatura, adattamento dell’omonimo romanzo illustrato opera di Peter Brown (edito nel 2016, ha poi avuto due seguiti, The Wild Robot Escapes, 2018, e The Wild Robot Protects, 2023), con curiosità e scetticismo a contendersi il campo in egual misura. La diffidenza era dovuta precipuamente alla mia scarsa simpatia per quello stile definito fotorealistico che vede la computer graphics adoperarsi in tratti tondeggianti oramai standardizzati, in particolare nella definizione dei personaggi.

A seguire, poi, il timore del prevalere di un politicamente corretto d’ordinanza inteso a spargere melassa e buonismo d’accatto offuscando l’impatto di determinate tematiche, dimenticando quanto il doppio binario realtà/immaginazione possa far sì, nell’ambito di un racconto favolistico o fiabesco, che i più piccoli vadano a provare forti emozioni, fino a rinvenire una possibile risposta alle proprie ansie. Una volta in sala, ricordando inoltre quanto dichiarato da Sanders in un’intervista, di come fosse sua intenzione mettere in scena “un dipinto di Monet in una foresta di Miyazaki”, nel procedere della visione i dubbi di cui sopra andavano a dissiparsi, non potendo che restare affascinato dalla resa sinergica offerta dalla concreta mescolanza tra malia immaginifica e mirabilia tecnica.
La scenografia che, pur nell’uso del digitale, richiama la tecnica dell’acquerello, curata da Raymond Zibach e Chris Stover, rende il paesaggio, dalle tonalità cangianti nell’avvicendarsi delle stagioni, quale ulteriore protagonista, una natura interagente con le varie creature (rese visivamente come tratteggiate, al pari di un libro illustrato), spesso condizionandone l’esistenza, fino a far sì che le rispettive diversità, a cominciare da quelle tra predatori e prede, vengono ridimensionate e asservite all’esigenza del bene comune, con l’intermediazione di una tecnologia ora amica, Roz, tanto da apprendere come sopravvivere voglia anche significare la capacità di andare oltre la propria “programmazione”.

Quanto va a visualizzarsi sullo schermo offre dunque la visione metaforica di come dovrebbe, o potrebbe, essere un mondo ideale, una società dove il progresso non è fine a se stesso ma coeso ad una reale evoluzione dal punto di vista umano e in cui si può divenire genitori non necessariamente assecondando l’ordinarietà biologica, ma anche prendendosi cura di quanti necessitino dell’aiuto a crescere e rinvenire il proprio posto nel mondo, rendendo l’alternatività di una famiglia classicamente intesa in un sodale gruppo amicale. Sono tematiche che Sanders sviluppa nel corso della narrazione con una certa naturalezza, evitando tanto ammiccamenti e sdolcinature quanto atteggiamenti moraleggianti.
Si offre dunque risalto ad ogni personaggio, ciascuno apportatore di una personale verità, rendendo percepibile anche l’idea della morte come connaturata all’esistenza, il tutto nella cornice della “bella fiaba” che avvolge un racconto di formazione incline a coinvolgere piccoli e grandi in un afflato certo immaginifico ma apportatore di una concreta allegoria rivolta al nostro presente, sulla nostra perduta identità e sul nostro fragile equilibrio. Un racconto che sa farsi vibrante elegia visiva paventando un futuro distopico dove la fredda efficienza tecnologica, programmata per sostituire l’essere umano in ogni funzione, andrà a ricrearne anche l’emotività perduta, quell’approccio empatico volto all’universo nella sua interezza proprio dell’armonia creazionale originaria.

Da ricordare l’ottimo apporto della colonna sonora di Kris Bowers nel dare ulteriore forza a determinate sequenze (il volo delle oche ad esempio) e le voci dei doppiatori statunitensi ed italiani (Lupita Nyong’o- Esther Elisha: Roz; Kit Connor – Nicolò Bertonelli: Beccolustro; Pedro Pascal- Alessandro Roja: Fink; Mark Hamill- Francesco Prando: Spina; Catherine O’Hara-Nadia Perciabosco: Codarosa; Stephanie Hsu- Martina Felli: Vontra; Bill Nighy- Gianni Giuliano: Collolungo; Ving Rhames – Alessandro Rossi: Fulmine; Matt Berry-Francesco De Francesco: Sguazza). Tra tanti rimandi, cinefili e non, da rimarcare in chiusura quello offerto dal nome della robot, Rozzum, che richiama, particolarità appresa girovagando su e giù per il web, la sigla R.U.R., ovvero Rossumovi univerzální roboti (I robot universali di Rossum).
Trattasi di un dramma utopico fantascientifico, un prologo e tre atti, dello scrittore ceco Karel Čapek (1890-1938), pubblicato nel 1920 e messo in scena al Teatro nazionale di Praga il 25 gennaio 1921, opera dove compare per la prima volta il termine robot, inventato, fonte Wikipedia, dal fratello dello scrittore ceco, Josef Čapek, per indicare l’operaio artificiale, basandosi sulla parola ceca robota (corvée, lavoro faticoso, servitù), trasformata da femminile a maschile.
Immagine di copertina: Movieplayer





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