Remo Girone (Giorgia Fiori, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons)

Quando la vita chiama, come si suole dire, può capitare di trascurare determinate notizie inerenti la propria attività, ad esempio l’incedere di qualche evento importante nel mondo dello spettacolo in genere o la scomparsa di interpreti  a tutto tondo, che si sono distinti tanto calcando il palcoscenico, quanto per il tramite d’interpretazioni cinematografiche e televisive. E così, preso da varie faccende, ho trascurato di conferire il giusto ricordo a due grandi attori che ci hanno lasciato in questo mese di ottobre oramai alla fine, Remo Girone e Paolo Bonacelli, al di là del consueto “coccodrillo”, soffermandomi piuttosto su di un’opera, non necessariamente famosa o circoscritta dall’aura del capolavoro, che ne abbia comunque messo in risalto duttilità e sfumature recitative.

Inizio allora a scrivere di Remo Girone (Asmara, Eritrea, 1948), morto lo scorso 3 ottobre, attore dalla formazione teatrale (frequentò l’Accademia nazionale di arte drammatica Silvio d’Amico), che si è distinto, anche sul grande e piccolo schermo, per il notevole carisma e la rimarchevole poliedricità nell’adattare il proprio stile recitativo alla variabilità caratteriale dei personaggi interpretati, vedi il villain Tano Cariddi de La piovra, ruolo che gli ha dato la grande notorietà,  cui ha donato un sottile fascino perverso, evidenziandone nel succedersi degli episodi le molteplici ambiguità, ora per il tramite del caratteristico timbro vocale, ora attraverso lo sguardo, volto quest’ultimo a scandagliare impietosamente quanto andava a ruotare intorno la propria figura.

(MyMovies)

Per ricordarlo, riprendendo quel che ho scritto ad inizio articolo, ho scelto di recensire un film non molto famoso, reperibile su RaiPlay, Il diritto alla felicità, 2021, che avevo già avuto modo di visionare ed apprezzare nella qualità di giurato nell’ambito di alcuni festival cinematografici. Claudio Rossi Massimi, regista e sceneggiatore,  mette in scena una sorta di fiaba moderna, dall’afflato piacevole e leggero ma non certo evanescente, considerando il messaggio finale di cui la narrazione si rende portatrice e che rinviene il suo fulcro portante nel personaggio del libraio Libero, nomen omen, felicemente reso con naturale pacatezza e congrua sobrietà da Remo Girone: la libertà insita in ogni essere umano in quanto tale, riconosciuta dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nella uguaglianza di dignità  e diritti, può divenire patrimonio condiviso e condivisibile se opportunamente veicolata per il tramite della cultura a suggerire il percorso.

 Il tutto fino a far sì  che il concetto astratto di “felicità” possa assumere la concretezza di un diritto acquisito ove si riesca a compenetrarsi nel pensiero altrui pur non condividendolo, assumendo la diversità quale valore trainante e non in guisa di scriminante. Un piccolo comune dell’Italia centrale (Civitella del Tronto, Teramo) diviene quindi proscenio idealizzato delle vicende di una varia umanità cui Libero cerca di andare quotidianamente incontro. L’incedere narrativo viene inframezzato dalla lettura da parte del nostro delle pagine di un diario datato 1957, dove una giovane donna narra le sue aspirazioni, condivise col compagno, di una esistenza migliore, la possibilità di un futuro diverso, che troverà strada nel raggiungere gli Stati Uniti d’America.

Clienti casuali e abituali, amici come Bojan (Federico Perrotta), che rimedia qualche soldo vendendogli vecchi libri rinvenuti nei cassonetti, o Nicola (Corrado Fortuna), il cameriere del bar di fianco, innamorato di Chiara (Annamaria Fittipaldi), quest’ultima alla ricerca di vecchi fotoromanzi per l’anziana madre, ma soprattutto l’adolescente Eissien (Didie Lorenz Tchumbu), immigrato, appassionato lettore cui presterà tutta una serie di classici della letteratura, rendendolo gradualmente edotto di un congruo discernimento critico, per poi beneficiarlo di un insolito ma provvido lascito testamentario, la citata Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

L’invadenza, a tratti, della colonna sonora ed una fotografia (Gianluca Gallucci) forse un po’ patinata non nuocciono più di tanto, nell’ottica di una fruizione “universale”, alla resa contenutistica del film, probabilmente superiore a quella più propriamente formale, per quanto rimarchevole nella direzione complessiva, con particolare riferimento alla valorizzazione delle interpretazioni attoriali: l’integrazione resa possibile e fruibile da uno scambio culturale mai vacuo o fine a sé stesso, in nome di una condivisione empatica di un  destino  che ci vede tutti attori sulla scena di un comune palcoscenico, quell’identico cielo che ci avvolge e ci sovrasta, con l’accoglienza delle regole a soppiantare efficacemente le regole dell’accoglienza. 

Immagine di copertina: Remo Girone e Didie Lorenz Tchumbu (MyMovies)

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