
Il titolo originale del film, tradotto in italiano come Nemico pubblico, è Public Enemies, espresso al plurale, come se già da questo particolare il bravo regista Michael Mann volesse prendere le distanze dalla spesso mitizzata figura del gangster Dillinger (interpretato da Johnny Depp), annoverandolo nell’elenco degli altri suoi “colleghi”(Pretty Boy Floyd, Baby Face Nelson), dei quali vengono accennate le gesta durante la narrazione. Ma “nemici pubblici” possono essere anche le banche, oggetto delle rapine di Dillinger e della sua banda, responsabili del crollo del ’29 con il seguente periodo della “Grande Depressione”, o ancora i poliziotti facenti parte del costituendo Bureau of Investigation, l’attuale FBI, che usa metodi repressivi non proprio ortodossi, con a capo Melvin Purvis (Christian Bale).
“Quando la leggenda diventa realtà, stampa la leggenda”: Mann, coadiuvato dall’efficace sceneggiatura di Ronan Bennet, basata su un romanzo di Brian Burrough, capovolge l’assunto fordiano per basarsi su uno stile essenzialmente cronachistico, con un’attenzione maniacale per ogni piccolo particolare, ambientando la storia nei luoghi reali in cui i fatti si svolsero.Usa poi spesso la camera a mano, la muove a scatti, parte da un’inquadratura “larga” per poi restringerla ed insinuarsi sui volti dei personaggi, rendendo lo spettatore partecipe della vicenda, creando una particolare atmosfera grazie anche all’illuminazione naturale (lampioni e luci dell’epoca) e alla splendida fotografia di Dante Spinotti.
Complice un montaggio “nervoso” (P. Rubell e J.Ford), non sempre si riesce a tenere il filo della successione degli eventi, a partire dalla scena iniziale dell’evasione, passando per le varie rapine, arresti, fughe, sparatorie, con una straniante colonna sonora, che mescola blues e rock, a far da contrappunto alle raffiche dei mitra e ai colpi di pistola, ma si resta comunque affascinati, anche per l’interpretazione minimalista di Depp. Basta un gesto, un semplice sguardo, quando non il silenzio, a conferire profonda espressività al suo personaggio, visto non come un eroe, ma uomo ieraticamente conscio del proprio destino, fedele ai propri ideali, agli amici e alla sua donna, Billie (Marion Cotillard).
Mann infatti evita tanto l’enfasi retorica che qualsiasi coinvolgimento emotivo o meccanismi di introspezione psicologica e contrapposizioni manichee tra bene e male:sia i poliziotti che i delinquenti lottano senza regole, anzi, a volte sono proprio i primi ad usare i metodi più drastici e violenti (la scena dell’interrogatorio di Billie, o la costrizione alla delazione della donna che permetterà di scoprire Dillinger).
Splendida la scena finale: Dillinger è al cinema, assiste all’ultimo film della sua vita (i federali gli spareranno alle spalle all’uscita), Manhattan Melodrama di Van Dyke, storia di due amici d’infanzia, C. Gable e W. Powell, che nella vita prenderanno due strade diverse, l’uno gangster e l’altro procuratore che lo condannerà alla sedia elettrica: come in un gioco di specchi Dillinger man mano che le immagini scorrono sullo schermo rivede la propria vita, uomo coerentemente e consapevolmente “contro il sistema”, che accetta la morte come unica, estrema, soluzione per continuare ad essere libero.





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