(Wikipedia Theatrical poster for the American release of Alfred Hitchcock’s 1940 film Rebecca).

Alfred Hitchcock (Londra, 1899-Los Angeles, 1980) esordisce a soli 26 anni come regista (The pleasure garden, ’25, non considerando Number thirteen, ’22, incompiuto), lasciando un segno ben preciso nella produzione britannica, tra film muti (The lodger, ’26) e sonori (Blackmail, ’29; The thirty- ninesteps, ’35), per poi approdare ad Hollywood, su invito del produttore David O. Selznick.

L’umorismo e la ricerca formale delle opere inglesi, la precisione nel costruire il meccanismo della suspense, con evidente distacco tra quanto conosce lo spettatore e quanto il personaggio in scena, che crea nel pubblico uno stato di ansia, rafforzato spesso da musiche a tema, luci ed ombre, si arricchirà d’ora in poi di un complesso mondo narrativo, dominato dai temi dell’angoscia e della colpa (presunta), della perdizione e della perversione, sino alla sublimazione delle ambiguità sessuali.

Rebecca, sceneggiato da Robert E. Sherwood e Joan Harrison sulla base dell’omonimo romanzo di Daphne du Maurier, è il suo primo film americano, l’unico ad aver vinto l’Oscar come miglior film (più quello per la miglior fotografia, George Barnes): inizia come una fiaba dai toni onirici, con la voce della protagonista (Joan Fontaine), della quale come nel romanzo non conosceremo mai il nome, ad introdurci nella tetra dimora di Manderley , un vero e proprio castello nascosto da una fitta vegetazione, nella quale venne condotta come nuova Lady de Winter, lei modesta dama di compagnia di un’eccentrica signora in vacanza a Montecarlo, dove aveva conosciuto il misterioso e triste Max (Laurence Olivier).

Una breve frequentazione, ma sufficiente, complice il suo candore, a farlo innamorare di lei e a chiederle di sposarlo: una volta giunta nella ricca magione, dovrà fare i conti con due incombenti presenze, la defunta prima moglie di Max, morta in circostanze misteriose, presente come ricordo in ogni angolo ed oggetto della casa, e la sua fedele governante, Mrs Danvers (Judith Anderson), sino a scoprire, dopo vari colpi di scena, sia una tragica verità, sia la sincerità dell’amore di Max.

“Non un film di Hitchcock”, a detta dello stesso regista, “basato su una storia demodè e mancante di umorismo”, a tutt’oggi appare “molto moderno, molto solido” (F.Truffaut), totalmente basato, in un’atmosfera gotica e straniante, sulla psicologia dei personaggi e sui loro conflitti (perfetta al riguardo Fontaine, un po’ rigidi e teatrali Olivier e Anderson), drammatizzando quelli che sono veri e propri modelli di universali stati d’animo, riunendo per la prima volta in un’unica inquadratura vittima e carnefice, un volto terrorizzato e l’altro terrorizzante, resi con una superba fotografia, che immerge i protagonisti nel buio e ne illumina solo lo sguardo: c’è insomma, trattenuto dalla struttura del romanzo, tutto il genio di Hitchcock, il suo virtuosismo tecnico-registico, il potere evocativo delle sue visualizzazioni, che rendendoci partecipi dei turbamenti dei protagonisti, riesce a materializzare i fantasmi nascosti nella nostra (fragile) psiche.

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