“Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la vita. Io sono padrone del mio destino: io sono il capitano dell’ anima mia”. Sono gli ultimi versi della poesia Invictus del poeta inglese W. E. Henley, che durante gli anni della prigionia diede a Nelson Mandela la forza di non arrendersi e continuare a sperare. Invictus è anche il titolo dell’ultimo film da regista di Clint Eastwood, incentrato sulla carismatica figura del presidente del Sudafrica, seguendo una parte del suo difficile percorso di pacificazione tra Afrikaners e popolazione di colore.
Basandosi sul libro Ama il tuo nemico di John Carlin, lo sceneggiatore Anthony Peckham prende le mosse dalla scarcerazione di Mandela (Morgan Freeman), l’11 febbraio 1990, dopo 27 anni di prigionia: lo vediamo percorrere in auto la strada che porta a Città del Capo, tra la gioia dei sudafricani di colore e i commenti sarcastici dei bianchi che seguono l’evento in tv; un breve accenno alle libere elezioni, siamo all’11 maggio 1994, l’apartheid è stato abolito, Mandela eletto presidente.
Conscio del forte desiderio di vendetta dopo anni di oppressione, con il rischio di una guerra civile, tra lucidità e forte senso pratico, ed una buona dose di coraggio, porta avanti la forza del perdono come unica arma, perché “libera l’anima e cancella la paura”; nello staff delle guardie del corpo, di colore, inserisce gli agenti che si occupavano della tutela del suo predecessore, poi, comprendendo l’importanza dello sport nazionale, il rugby, coltiva l’idea di capovolgerne gli assunti, non più retaggio simbolico dell’apartheid, con la squadra locale dei Springboks amata soprattutto dagli Afrikaners e con i neri relegati in un angusto settore dello stadio, a tifare per la squadra avversaria, ma bandiera di un rinnovato orgoglio nazionale e di un ritrovato spirito unitario, “one team, one country”.
In vista della Coppa del Mondo del ’95, ospitata proprio dal Sudafrica, Mandela chiama il capitano della squadra, Francois Pienaar (Matt Damon) per dar vita insieme, tra diffidenze iniziali, a una strategia di riconciliazione che porterà bianchi e neri ad esultare insieme per la vittoria in finale: la neonata “Rainbow Nation” è diventata adulta.
Tra biografia, impegno civile e il tema dello sport come parabola di vita, un film esemplare, una lezione di storia e di grande cinema: lo stile è rigoroso, essenziale, la regia quasi invisibile, dando risalto all’analisi psicologica dei protagonisti, Freeman, che fa di Mandela un uomo comune, mai domo, capace di grandi cambiamenti per far sì che anche gli altri cambino, e Damon, vero motore della storia, che si fa carico di ogni innovazione apportata.
Senza dimenticare la spettacolarità, vedi le inquadrature e le felici scelte di montaggio nelle riprese delle partite in campo, notevole è la fluidità del racconto, con momenti di toccante poesia, l’arrivo dei giocatori tra le misere baracche, con gli sguardi tra bianchi e neri che finalmente si incrociano, o di forte emozione, come la visita della squadra alla cella di Mandela.
Bellissima la sequenza finale, incentrata più che sulla coppa alzata al cielo dai giocatori, sulla scena in parallelo dei poliziotti bianchi che fuori dallo stadio fanno amicizia con un povero bimbo di colore, sino ad abbracciarlo e portarlo in spalla a fine partita. Sarà anche “cinema di una volta”, ma ben vengano gli effetti speciali delle sane emozioni e della sincera retorica.
Grazie, buon vecchio Clint.





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