Porta di Nona, periferia romana. In un cantiere edile lavora il trentenne Claudio (Elio Germano), operaio scrupoloso nell’esecuzione dei lavori e nel rispettare le più elementari norme di sicurezza, pur tacendo su un caso di “morte bianca” avvenuto all’interno del costruendo palazzo, un guardiano di origine rumena, precipitato nella tromba dell’ascensore e lì “seppellito”.
Si confida con la moglie Elena (Isabella Ragonese), incinta, ma decide che il cantiere non può chiudere, tante famiglie si ritroverebbero senza soldi da un momento all’altro, compresa la sua, con due figli piccoli da crescere, i mobili da comprare, la previsione di una vacanza last minute.
La vita va avanti, tra le difficoltà, Claudio può contare su un rapporto fatto di gioiosa complicità e sensualità, e l’aiuto dei parenti, come il fratello Piero (Raoul Bova), vigile urbano timido e in difficoltà nei rapporti con le donne, la sorella Liliana (Stefania Montorsi), cassaintegrata, l’amico pusher Ari (Luca Zingaretti), paraplegico e convivente con una donna di colore e il suo bambino.
Ma per lui è in arrivo la tragedia, improvvisa, devastante: Elena muore per complicazioni sorte durante il parto, e così si ritrova solo, con i suoi figli e il neonato da accudire, un grande dolore cui reagisce violentemente, pensando di colmare il vuoto venutosi a creare con il facile guadagno, dando alla sua famiglia ciò che non ha mai avuto, ricattando il proprio capo per un subappalto e mettendosi in proprio, sfruttando una squadra di extracomunitari, trovandosi coinvolto in situazioni drammatiche dalle quali verrà fuori solo grazie all’aiuto dei suoi familiari, affrontando finalmente la propria coscienza, e, forse, ritornando su i suoi passi, aggrappandosi disperatamente ai suoi figli come nuova speranza.
La sceneggiatura di Sandro Petraglia e Stefano Rulli, cui ha contribuito lo stesso regista Daniele Luchetti, fa de La nostra vita un film spietatamente duro, crudo nella sua semplicità e purezza espositiva, con la macchina a mano quasi sempre presente ad altezza d’uomo ad indagare il microcosmo del nuovo proletariato urbano, ignorato dallo Stato come dai tg, lavoro precario e in nero, che trova nei centri commerciali la parvenza illusoria di una falsa aggregazione e di una falsa eguaglianza, con il denaro a fare da compensatore e livellatore sociale.
Partendo da una tragedia privata e dal tentativo di superarla inseguendo quei falsi valori ormai regola imperante di vita, si arriva ad una visualizzazione estrema di cosa sia diventato il nostro paese negli ultimi anni, tutto teso ad inseguire un benessere etereo, basato sui soldi facili e su quanto questi possano comprare, infischiandosene di leggi o regole di vita pur di apparire, di sembrare quel che non si è.
Il pregio essenziale di Luchetti nell’inseguire un estremo realismo è di non usare mai toni compiaciuti o paternalistici, evitando retorica e stereotipi, sfiorando a volte un facile moralismo, appena temperato da una certa dose di cinico umorismo, che riesce a mantenere il film in un delicato equilibrio, sino ad un finale in apparenza consolatorio ma in realtà semplicemente e sinceramente teso verso una sempre possibile redenzione.
Straordinaria infine l’interpretazione di Germano (Palma d’oro a Cannes), che evita il “sopra le righe”, grazie all’ottimo bilanciamento con gli altri attori, perfettamente in parte e psicologicamente ben delineati.





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