Giunto alla fatidica edizione del trentennale, per il Festival Jazz di Roccella Jonica, Rumori mediterranei, è tempo di festeggiamenti ma anche di bilanci, come spesso impone il raggiungimento di un’età la cui cifra riporta uno zero accanto al numero principale. Riguardo il primo punto, la direzione artistica di Paolo Damiani omaggia Festival e pubblico con un programma estremamente ricco e variegato, che lascia ampio spazio, come avviene coerentemente sin dalla nascita, tanto a produzioni originali che a sperimentazioni, valorizzando la commistione tra linguaggi diversi (poesia, danza installazioni, mostre fotografiche, cinema), favorita anche dal concepire la manifestazione come luogo d’incontro tra musicisti di aree geografiche ed espressioni artistiche diverse.

Riguardo il secondo, la dice lunga il sottotitolo scelto dal direttore artistico, Memorie future: tutto il lavoro svolto in questi anni, come promozione culturale e valorizzazione del territorio, non deve andare assolutamente perduto, ma costituire valida base per andare avanti e far sì che questa importante kermesse consolidi sempre di più la sua fama di appuntamento principale sia per il pubblico italiano, che a livello internazionale.

Ieri sera,venerdì 13 agosto, grande inaugurazione all’insegna del connubio tra jazz e cinema: dopo lo spettacolo Cinico Jazz, ovvero il jazz secondo Ciprì e Maresco, si è potuto infatti assistere alla proiezione, in anteprima nazionale, (è stato presentato fuori concorso al recente Festival di Locarno) del film-documentario Io sono Tony Scott, diretto dal regista palermitano Franco Maresco, autore anche della sceneggiatura, insieme a Claudia Uzzo.

Prodotto da Cinico Cinema, Rai Cinema e Film Commission Sicilia , il film, che ha richiesto una lavorazione di circa quattro anni, si presenta come un omaggio, in forma di biopic, estremamente lucido e venato di malinconia ed amara ironia, alla figura del grande clarinettista Anthony Joseph Sciacca, alias Tony Scott (foto).

Maresco coniuga abilmente realtà e leggenda, preferendo, essenzialmente, la prima: lo si vede già ad inizio film, quando, dopo una breve introduzione sul valore ed il significato della musica, Scott ci viene mostrato ormai ottantenne, ospite in una trasmissione di Paolo Bonolis, il quale non trova di meglio da fare che dileggiarlo con i consueti modi da “bibitaro di borgata” elevati a motti di spirito.

Questo perché il grande artista, non rassegnandosi mai ad una dorata emarginazione, si è reso egli stesso vittima della sua fama, mascherando il fallimento esistenziale con tutta una serie di stranezze non più frutto del connubio “genio e sregolatezza” ma di depressione, maniacalità quasi psicotica ed ossessiva, ripetendo in continuazione di essere “il più grande clarinettista del mondo”, accompagnando le sue ultime esibizioni con una logorrea snervante, come ricordano i vari musicisti che lo accompagnarono e le cui dichiarazioni passano sullo schermo.

Nato a Morristown, New Jersey, nel 1921, da emigrati di un piccolo paese in provincia di Trapani, Scott ha contribuito da protagonista alla nascita del bebop, suonando nei locali della 52esima strada di New York, accompagnandosi ad artisti del calibro di Gillespie, Charlie “Bird” Parker, Lester Young e tanti altri che con le loro geniali intuizioni ed improvvisazioni stavano ormai portando la musica jazz verso la modernità.

Insieme a Buddy Di Franco, Scott rende il clarinetto, strumento ritenuto antiquato, magico partecipe del nuovo genere musicale. Vari gli aneddoti che si succedono nel film, tra filmati e testimonianze, l’amicizia con Charlie Parker e Billie Holiday per cui compose molti arrangiamenti, il celebre attacco iniziale di Banana boat, grande successo di Harry Belafonte.

Tra tanti particolari, in due ore di proiezione, impossibili da riassumere efficacemente, va certo ricordato il ruolo di Scott come pioniere della World Music e il suo trasferimento in Italia a inizio anni ’80, per essere compreso in quel clima di diffidenza cui vanno incontro nel nostro paese, sempre più propenso ad un ristretto provincialismo, le tante personalità dal genio prorompente e non inclini a conformismi o adattamenti.

Complici il carattere non facile e le ristrettezze economiche, si trovò a duettare con il pianista Romano Mussolini, guadagnandosi così la nomea di fascista, lui che aveva contribuito all’affermazione dei diritti degli afroamericani, e, siamo ormai in era berlusconiana, tra antenne tv e governo, a suonare per compensi consistenti a volte in una serie di pranzi, come negli storici locali milanesi o addirittura in sagre paesane.

In ultimo tristi comparsate televisive e cinematografiche cui era costretto per pagarsi le cure di un tumore alla prostata che lo porterà via dalle scene nel 2007. Ora riposa a Salemi, suo paese natale, nella cripta di famiglia di un cugino, del quale sentiamo l’appello perché il comune si rammenti del grande musicista e delle sue geniali intuizioni, lasciando da parte commemorazioni postume di facciata e frasi di circostanza.

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