California.In un improbabile circuito intorno ad una radura arsa dal sole, una Ferrari nera inanella giri su giri. Una volta ferma, appare il guidatore, l’attore “per caso” Johnny Marco (Stephen Dorff), visto che non ha frequentato alcuna scuola di recitazione, trovandosi coinvolto, grazie anche al suo aspetto e allo studiato look “sfatto”, nel luccicante mondo dello star system, un rapido successo al quale non è però riuscito a dare concreta gestione emotiva.
La sua vita gira a vuoto, un continuo, ripetitivo, carpe diem: dimora in un appartamento al Chateau Marmont, sul Sunset Boulevard di Los Angeles, dove trascorre abulicamente gran parte del suo tempo, quando non è impegnato con il lavoro, tra sedute al trucco, foto per il lancio di qualche film, conferenze stampa.
In questa sorta di ventre materno, avvolto dal liquido amniotico di una confortante e algida ritualità, Johnny si concede ogni tipo di agio che la sua posizione di divo gli consente, due gemelle che si danno alla lap dance nella sua camera, ma che non sembrano entusiasmarlo granché, feste organizzate a sua insaputa, qualche sveltina con la bellona di turno, sempre che non si addormenti fra le sue gambe, alcool e pasticche.
Unico barlume di concreta felicità, e di contatto con la vita reale, le visite della figlia undicenne Cleo (Elle Flaning), dalla cui madre è separato, che diverranno breve convivenza prima di un campo estivo: insieme andranno a Milano per il ritiro di un premio, impareranno a conoscersi, pur senza particolari slanci affettivi, e proprio grazie alla sua presenza qualcosa in lui cambierà, una ritrovata consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei propri errori.
Somewhere, regia e sceneggiatura di Sofia Coppola, Leone d’Oro alla 67ma Mostra del Cinema di Venezia, è un film classicamente autoriale, con richiami alle opere di papà Francis e di Antonioni, che si avvia e procede lentamente, sfruttando la forza delle immagini, con pochi dialoghi, e per accumulo di gestualità, dettagli e situazioni, apparentemente insignificanti, ma funzionalmente correlate al modus vivendi del protagonista.
E’ una storia intensa e rarefatta, anche autobiografica, che non gioca le carte di una facile melodrammaticità e gratuita emotività: la mutazione di Johnny avviene senza alcuna enfasi, la possiamo solo intuire, grazie all’abile messa in scena del contrasto tra il suo vuoto interiore e l’apparente, sazia, completezza del mondo dorato di Hollywood, tra momenti di silenzio e schermo nero nel passaggio tra una sequenza e l’altra.
Non manca, per inciso, una veloce stoccata alla sciatteria della nostra tv, nella scena del ritiro del premio, tra le iperbole della Ventura e gli errori grammaticali elevati a motto di spirito di Frassica, i presentatori, e l’imbarazzante balletto della sculettante Valeria Marini.
Forse il risultato finale potrà apparire a molti freddo, non empatico, complice anche una fotografia abbastanza neutra, ma a pensarci bene forse la bravura dell’autrice sta essenzialmente nel riuscire a descrivere la naturalità dell’esistenza, dove la consapevolezza degli affetti, i cambiamenti, le scelte, avvengono e basta.
Quante volte ci siamo trovati “da qualche parte” (somewhere), magari senza sapere il perché e dove ci condurrà la nuova strada, ma con la consapevolezza di averla intrapresa senza esserci persi? E’ quanto evidenziato nella scena finale, ideale collegamento con quella d’apertura, Johnny di nuovo in auto, ma verso una strada aperta, cui volge il suo sguardo una volta sceso: da qualche parte sarà possibile cominciare finalmente a vivere.





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