Tra i quattro film italiani in concorso alla 67ma Mostra del cinema di Venezia, La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo, tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Giordano, co-sceneggiatore insieme al regista, è un’opera squisitamente ed essenzialmente cinematografica, imbevuta pienamente del suo linguaggio, nello specifico del cinema di genere. Rispettando in linea di massima, finale a parte, il plot originario e i caratteri essenziali dei protagonisti, se ne distacca per la chiara intenzione di non farne una semplice visualizzazione, ma una traduzione originale.
Padrone di una tecnica indiscutibile, Costanzo, pur lontano dai sobri stilemi delle precedenti realizzazioni (Private, In memoria di me) usa precisi dettami stilistici e figurativi, tra il thriller e l’ horror, virando più verso il primo, personalizzando i vari richiami o le esplicite citazioni (da Argento a Polanski, passando per Kubrick e Lynch), con una espressività complessiva inedita nell’ambito della cinematografia italiana, per quanto spiazzante.
“Numeri primi”, chiamati dai matematici “primi gemelli”, sono quei numeri speciali che possono essere separati solo da un numero pari, divisi solo per se stessi, e come tali destinati a restare soli, mai abbastanza vicini per toccarsi veramente: sono così Alice e Mattia, alla cui vita possiamo assistere, tramite un’ardita alternanza dei flussi temporali, sin da bambini (Martina Albano e Tommaso Neri), transitando per l’adolescenza (Arianna Nastro e Vittorio Lomartire), ed arrivando infine all’età adulta (Alba Rohrwacher e Luca Marinelli, nella foto, intensi nell’esprimere silente dolore).
Scopriamo cosa li abbia isolati dal mondo circostante, e comunque resi mai in armonia con in esso, genitori oppressivi o distratti, eventi diversamente traumatici, portando lei all’anoressia e lui all’autolesionismo, infliggendosi profondi tagli. Si sfiorano più volte, arrivano a conoscersi al liceo, si frequentano da adulti, per un attimo sembrano riconoscersi l’uno nel disagio dell’altro, con Mattia che supera l’ autismo affettivo confidando l’origine del suo tormento ad Alice, la quale lo fa proprio, metabolizzando ed elaborando il dolore dell’amico. Si rincontreranno dopo sette anni, lei separata dal marito, magrissima, lui, insigne matematico, solo ed imbolsito…
Le studiate inquadrature, certe angolazioni, la fotografia cupa e carica (Fabio Cianchetti), il montaggio secco e brusco (Francesca Calvelli; pregevole il parallelismo nel narrare gli eventi tragici dei due bambini) le stesse musiche, a volte troppo insistite (l’inedito dei Goblin in apertura, i cori composti da Morricone per L’uccello dalle piume di cristallo), gli scarsi dialoghi, il prevalere in sostanza del non detto, evidenziano la scelta di Costanzo di creare non tanto un clima di empatia con lo spettatore, rendendolo partecipe del dolore dei due protagonisti, ma uno stato di tensione costante, agitando il terrore dall’esterno, dalla visione dei corpi deformati, verso l’interno, creando una sorta di fastidioso turbamento.
Tra sofferenza, minimalismo, qualche semplificazione (le figure dei genitori, pur con un plauso a Donadoni, papà di Alice, e alla Rossellini, mamma di Mattia), lo sguardo d’insieme si fa incerto, legato com’è, con una certa profondità, a quello di chi non solo è incapace di guardare dentro di sé, ma anche, e soprattutto, di correlarsi all’altro: la nostra angoscia si scioglie, insieme a quella di Alice, soltanto alla fine del film, quando lei adagia il capo tra le spalle di Mattia, insieme gesto di resa e probabile presa di responsabilità per l’avvenire.





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