Ho sempre seguito con interesse le opere del regista Christopher Nolan, sin dai suoi esordi con Following, ’98, affascinato dalla sua capacità di coniugare l’intrattenimento spettacolare, mai fine a sé stesso, con i tocchi autoriali dati da ardite costruzioni temporali, tra “salti”, pause e rallentamenti. Una capacità di rielaborare in una personale visione e poetica di stile il cinema classico e di genere, noir in particolare, veramente esemplare, pur richiedendo una certa attenzione partecipativa degli spettatori nel ricomporre i vari frammenti narrativi sparsi lungo il cammino.
E’ quanto si rileva nel recente Inception, del quale è anche autore della sceneggiatura, sulla base di un proprio soggetto originale: un film che potrà piacere o meno, ma che ha l’indubbio merito di restare in testa anche a più giorni dalla visione, portando ad interrogarsi sulle sue possibili interpretazioni, al di là della pur mirabile resa visiva. D’altronde, è quanto avviene con i sogni, belli o brutti che siano, e, soprattutto, con la loro elaborazione, vero fulcro del film.
La trama, vista nella sua essenzialità, vede come protagonista Dom Cobb (Leonardo DiCaprio), gestire una particolare organizzazione che ha messo a punto un’inedita forma di spionaggio industriale, la possibilità di entrare nella mente delle persone, nei loro sogni, divenendone protagonisti, così da carpirne idee e segreti da rivendere ai concorrenti. Fallito il tentativo di furto ai danni del potente Saito (Ken Watanabe), sarà proprio quest’ultimo a suggerire a Dom un nuovo livello, non prelevare un’idea, ma innestarla.
Vittima sarà il giovane Robert Fischer (Cillian Murphy), prossimo erede di un impero multimiliardario: per indurlo a cederlo a Saito si metterà in moto una vera e propria troupe, il manovratore Arthur (Joseph Gordon- Levitt), l’architetto Ariadne (Ellen Page), il falsario Eames (Tom Hardy); ma Dom non ha fatto i conti con i fantasmi del suo inconscio, nella forma della defunta moglie Mal (Marion Cotillard ), presente tanto nei suoi sogni che in quelli altrui…
Dopo un avvio lento e didascalico, il film prende forma, l’azione si fa tesa ed incalzante, la tensione sempre più crescente, e pur nei richiami (più scenografici che di contenuto) alla saga di Matrix, oltre che a Kubrick e Ridley Scott (e ai libri di J. L. Borges), il “Nolan touch” si fa sempre più evidente, tra spazi che si animano, tempi sfalsati o dilatati.
Tutto volto a spiazzare lo spettatore, a far sì che la sua attenzione sia costante, perché, pur nella non esaustività delle spiegazioni, ciò che risalta è l’abilità nel gestire una sceneggiatura complessa con un rigoroso controllo narrativo.
La stessa, insistita, spettacolarità di molte scene, sfruttando non solo il digitale, ma anche i “vecchi” effetti speciali, o la colonna sonora a volte ridondante (Hans Zimmer; mirabile l’uso della splendida Non, je ne regrette rien, di Edith Piaf ), rientrano nell’ ambito della funzionalità.
Ciò che sembra interessare al regista, e che è poi la parte più affascinante, intrisa com’è anche di un certo romanticismo, è la psicologia del protagonista, il forte legame con la moglie, dalle estreme conseguenze, il viaggio all’interno del suo inconscio e subinconscio, la sua elaborazione mentale, l’aspetto oggettivo del mondo e la sua visione soggettiva, il tormento dalla colpa e la probabile redenzione.
Infatti il finale, in una struttura a cerchi concentrici, segue la linea essenziale dell’intera opera, inseguire i sogni, la loro indeterminatezza, il loro lambire come spuma del mare la riva della realtà, un confine sempre labile.
Nolan dimostra, tramite un linguaggio metacinematografico, sia quanto possa essere importante un’idea, sia il far sì che questa si imprima nella mente del pubblico, irretendolo con la spettacolarità e “costringendolo” a più di una riflessione: puro cinema, al di là di ogni apparente esercizio di stile.
Il cuore e la mente…che enigma. (Charlie Chaplin/Calvero, Limelight, ’52)





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