Passano gli anni, ma i fratelli Vanzina, Carlo ed Enrico, continuano a dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, in una altalenante alternanza di film “vacanzieri” e commedie più strutturate e dai personaggi meglio definiti, memori della lezione paterna (Steno, Stefano Vanzina). Se nei primi si faceva leva su un umorismo spesso becero e cialtrone, compiaciuta e compiacente messa alla berlina degli italici vizi, nelle seconde si notava una non comune capacità di osservazione delle mutazioni in atto nella società, a livello di costume e non solo, mai però con il coraggio del vero affondo.
Ti presento un amico, Carlo alla regia e cosceneggiatore insieme al fratello e a Francesco Massaro, lascia interdetti. Infatti, pur lodando il nobile tentativo di trarre ispirazione dalla sophisticated comedy d’antan, scevra da volgarità, aggiornata ai tempi della crisi internazionale e di un sempre più configgente rapporto tra i sessi, si resta delusi per piattezza ed opacità di tono, che fa sì che non si crei un minimo di empatia con gli spettatori, sia a livello di riflessione che di semplice e sano umorismo.
Nuoce poi un vago sentore di dejà vu, in generale e nello specifico, vista la somiglianza, involontaria, del plot con Tra le nuvole di Reitman, uscito quando il film era in fase di scrittura. Marco (Raoul Bova), 37enne manager di una multinazionale di cosmetici, da Londra, dove è stato appena lasciato dalla sua compagna, licenziata dal posto di lavoro, è richiamato alla sede di Milano: teme il peggio, essendo stato convocato dal “Gran Capo”, che invece gli offre una promozione, direttore generale del marketing, con l’ingrato compito di provvedere ad eliminare il personale in esubero.
Allo stesso ruolo ambiva però la collega Giulia (Barbora Bobulova), con la quale Marco intreccia una breve liaison, così come con la gallerista Sarah (Kelly Reilly), mentre restano affascinate dai suoi modi da gentiluomo d’altri tempi la giornalista televisiva Gabriella (Martina Stella) e Francesca (Sarah Felberbaum), impiegata nella sua stessa ditta e prossima al licenziamento.
A complicare il tutto amanti o fidanzati gelosi e il buon cuore di Marco.
Detto sopra dei difetti strutturali, non resta che parlare degli interpreti: Bova appare sin troppo bloccato nella insistita goffaggine del personaggio, pur giocando su un fascino understatement, più passivo “infilza tortore” che spietato “tagliatore di teste”, i personaggi di contorno (il capo tedesco, il fidanzato barese, il taxista partenopeo) appaiono sin troppo macchiettistici, mentre un certo spessore l’acquista l’intero cast femminile, non fosse altro per il ruolo alla fine dominante sul cosiddetto sesso forte.
Per una commedia sofisticata degna di tal nome non basta un’ambientazione vagamente “leccata”, occorrerebbe coniugare leggerezza del tocco e capacità di guardare in profondità. “Non mi resta che la speranza”, dice il protagonista nella scena finale e così anche a noi: la speranza che i Vanzina si smarchino da uno stile televisivo, volto ad assecondare passivamente il pubblico più che stimolarlo.





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