Legato da sempre all’idea a me cara della sala cinematografica come luogo ideale per godersi un film, inguaribile romantico o lungimirante postmoderno che dir si voglia, ho atteso a lungo la programmazione in qualche cinema della mia zona, anche solo per una giornata o in orari “carbonari”, di Carnage, ultima fatica di Roman Polanski, presentato in concorso alla 68ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (unico premio, Leoncino d’Oro Agiscuola) ed ormai in distribuzione da più di un mese.

Finalmente non solo l’attesa è stata premiata, ma la visione mi ha lasciato abbastanza contento e soddisfatto come non mi capitava da tempo. Derivato dalla pièce teatrale The God of Carnage di Yasmina Reza, sceneggiatrice insieme a Polanski, il film più che un esempio, magistrale, di “teatro filmato”, nel pieno rispetto dell’unità spazio- temporale, è, in primo luogo una raffinata, elegante, esposizione di cinema allo stato puro.

Grazie alle notevoli interpretazioni degli attori che rendono al meglio i brillanti dialoghi, e ai rapidi, flessuosi, quasi impercettibili, movimenti di macchina rivolti verso oggetti e persone, supportati da un efficiente montaggio (Hervè de Luze), Polanski riesce infatti a conferire una certa dinamicità ad una vicenda che si svolge all’interno del classico salotto buono di un appartamento newyorkese della media borghesia, ordine e costruita eleganza leggermente ostentata, vedi il tavolo centrale con un vaso di tulipani gialli e cataloghi di gallerie d’arte in bella mostra.

Dopo il prologo iniziale, in campo lungo, dove assistiamo ad un litigio tra ragazzini in un parco, veniamo quindi condotti all’interno del suddetto appartamento: i coniugi Longstreet (Jodie Foster e John C. Reilly) e Cowen (Kate Winslet e Christoph Waltz) sono intenti a comporre una sorta di bonario componimento, visto che il litigio di cui sopra riguardava i rispettivi figli; tutto sembra ormai risolto, gentilezze, moine, sorrisi, una tazza di caffè, una fetta di torta, ma basta qualche parola di troppo a scatenare un feroce gioco al massacro…

Tra scontri verbali, battute dilanianti, idealismi, non poi così concreti, pronti ad andare in frantumi, un cellulare che squilla continuamente, in competizione con il telefono di casa, vengono fuori tutti i malanimi, i vezzi, le idiosincrasie di una classe sociale ormai allo sbando, i cui unici valori sono rappresentati dal voler mantenere a tutti i costi la solita facciata perbenista, facendo affidamento su opportunismo e convenienza.

Una modalità intimamente egoistica di improntare il proprio modus vivendi, sia che si tratti di sbarazzarsi di un “puzzolente criceto”, sia di farsi garante di un farmaco passibile di effetti secondari nocivi per la salute o, infine, d’atteggiarsi a paladini di valori progressisti.

Uno spietato ritratto di “sepolcri imbiancati”, splendidamente reso in particolare dalla Winslet e da Waltz, bel mix di cinismo e sarcasmo al vetriolo, anche se non è da sottovalutare l’occhietto particolarmente acceso della Foster, una santabarbara pronta a scoppiare da un momento all’altro, con un briciolo di speranza nella scena finale, speculare, anche nella modalità di ripresa, a quella iniziale.

I “piccoli” hanno ormai fatto la pace, mentre poco prima, nel campo di battaglia dei “grandi”, dopo rese condizionate ed inedite alleanze, il trillo del telefonino assumeva le sinistre sembianze dello squillo del trombettiere annunciante la carica …

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