Lo specchio scuro (The Dark Mirror, 1946)

New York, anni ’40, notte. All’interno di un appartamento giace il cadavere di un uomo, con un pugnale conficcato nella schiena.
Si tratta di Frank Peralta, medico, del caso se ne occupa il tenente Stevenson (Robert Mitchell): interroga la donna delle pulizie, che ha rinvenuto il corpo alle 7.30 del mattino, recandosi al lavoro.
Prosegue con Mr. Benson (Lester Allen), abitante nell’alloggio a fianco: verso le 22 ha visto il dottore rincasare in compagnia di una donna graziosa, vestita con un completo blu e fiori nei capelli. Mrs. Didriksen (Lela Bliss), abitante nell’appartamento sottostante, mezz’ora dopo ha udito un tonfo provenire dal pavimento e poi dei rumori di passi sulle scale: nel socchiudere la porta per vedere chi fosse ha notato, illuminata dalla luce, una ragazza molto carina. Frances Beade (Marta Mitrovich), infine, assistente del dottore, rivela che Peralta aveva invitato a cena tale Terry Collins (Olivia de Havilland), con l’intenzione di chiederla in moglie, visto che si frequentavano da tempo.

Olivia de Havilland e Robert Mitchell (Cinema Museum)

La donna lavora ad un banco di vendita alla Casa del medico, proprio dove l’ucciso aveva lo studio, viene riconosciuta dai testimoni ma vanta un solido alibi, tre suoi amici possono confermare di averla vista al parco, dove si era recata per assistere ad un concerto; il caso non appare dunque di facile soluzione, anzi andrà a complicarsi ulteriormente quando Stevenson scoprirà l’esistenza di una sorella gemella, Ruth (de Havilland). Solite a scambiarsi di ruolo sul posto di lavoro, le sorelle non intendono collaborare nel dichiarare chi fosse al parco e chi invece in casa, d’altronde il Codice consente di rifiutarsi di rispondere in simili circostanze, proibendo che due persone possano essere accusate dello stesso delitto. Si rivelerà provvidenziale l’intervento dello psichiatra Scott Elliot (Lew Ayres), il quale otterrà il consenso di entrambe per la sottoposizione ad una serie di sedute, comprensive di vari test …

De Havilland e Lew Ayres (Pinterest)

Tratto da un racconto di Vladmir Pozner, pubblicato nel 1945 su Good Housekeeping, sceneggiato da Nunnally Johnson e diretto da Robert Siodmak, The Dark Mirror è un suggestivo e conturbante thriller psicologico, nelle vesti di un torbido noir. Mette in scena, anche per il tramite di richiami espressionistici, un raffinato ed insinuante gioco di specchi (oggetti sempre funzionalmente presenti lungo lo scorrere della narrazione, dalla sequenza d’apertura fino a quella rivelatrice verso il finale): non vi è il “classico” assassino che cela una personalità deviata dietro le sembianze di un’irreprensibile esteriorità, bensì siamo di fronte a due potenziali omicide che andranno a rivelare, gradualmente, diversificate caratteristiche psicologiche e comportamentali, non disgiunte da una certa problematicità caratteriale.

(The Blonde at the Film)

L’una, Terry, appare più aggressiva ed ambigua, nonché sinistra manipolatrice, l’altra, Ruth, mite e remissiva. L’interpretazione di Olivia de Havilland rende ad entrambe una realistica rappresentazione, assecondandone luci ed ombre con un rapido mutamento dello sguardo, una postura leggermente diversa, rigida o “morbida”, la gestualità trattenuta o esibita, facendo sì che mano a mano si renda del tutto superfluo l’espediente usato per distinguerle, le iniziali sui vestiti o l’esibizione di vistosi gioielli con i loro rispettivi nomi. La credibilità della contemporanea presenza sullo schermo di due donne interpretate dalla stessa attrice, quindi del tutto simili nell’aspetto fisico ma differenti riguardo l’atteggiamento esistenziale, viene poi ulteriormente suffragato dal lavoro sinergico della cupa fotografia di Eugen Schufftan (non accreditato, dai crediti ne risulta autore Milton R. Krasner, fonte Cinematografo.it) e della ricercata regia di Siodmak, il quale fin dalla sequenza di apertura, la macchina da presa che dallo skyline newyorchese si muove verso lo stabile, entrando nell’appartamento di Peralta ed insistendo sui particolari (lo specchio rotto, la lampada in terra) fino allo svelamento del cadavere, crea uno stretto legame visivo fra i personaggi  ed ogni elemento proprio dell’ambiente che li circonda.

(Tipping My Fedora)

Siodmak quindi con rapidi, efficaci, movimenti di macchina, cui si accompagna un montaggio piuttosto serrato (Ernest Nims) mantiene alta la tensione insinuando uno straniante senso d’inquietudine che si palesa attraverso il graduale dispiegarsi di una personalità psicopatica, tangibile all’interno di una conclamata specularità, resa evidente, per esempio, nello specchiarsi dell’immagine dell’una mentre l’altra le sta di fronte, riflettendosi a sua volta. Siodmak inoltre tiene tesa fino all’ultimo la fune di una sottile ambiguità: Ruth e Terry appaiono spesso affiancate, rendendo a noi spettatori la visualizzazione in carne ed ossa del test delle Macchie di Rorschach, il quale fa da sfondo ai titoli di testa e di coda e viene usato dallo psichiatra, come su scritto, nei riguardi delle  sorelle; il loro sdoppiamento comporta infatti una corrispettiva dualità comportamentale affidata all’interpretazione di noi spettatori, una sottesa raffigurazione subliminale prima ancora che si palesino conturbanti manifestazioni di un malessere paranoico, scatenato quest’ultimo dalla gelosia e dall’invidia nei confronti di chi, pur totalmente identica nell’aspetto, conquistava le simpatie di tutti già da bambina e in particolare i cuori degli uomini una volta adulta.

(Alchetron)

La suddetta carta dell’ambiguità viene giocata fino in fondo, tanto che nel finale assistiamo ad una sorta di rincorsa fra le due differenti personalità nei riguardi di una stessa persona, fino a quando la rottura di uno specchio non porrà fine al dualismo mettendo in luce una netta distinzione tra la donna tanto desiderata dagli uomini, mite, accondiscendente, e quella invece ritenuta pericolosa, capace di plagiare con astuzia diabolica persone ed eventi, volgendo  il tutto a proprio vantaggio, autoassolvendosi. Un dualismo, ma ricordiamo sempre l’epoca di produzione, dal retaggio sessista o comunque accondiscendente al pensiero dominante maschile, la donna angelicata da un lato e la femme fatale dall’altro, un conclamato fascino egualmente attrattivo ma esternato in modalità differenti.

Jane Seymour (IMDb)

Scritto della splendida interpretazione della de Havilland, lontana dai consueti ruoli funzionali ad una narrazione improntata spesso all’eroismo virile, fra romanticismo dai  languidi palpiti  e devozione “sacrale” verso l’uomo amato, non si possono che encomiare le valide prove di Mitchell, il suo fare sornione tra cinismo e disincanto (“Vi dovrebbe essere il divieto di vendere i guanti agli assassini”, è il suo laconico commento alla mancanza d’impronte digitali sul luogo del delitto), e di Ayres, figura romantica e distinta, con qualche tocco d’eccentricità, vedi la predilezione per le caramelle al limone.
Valido anche il commento sonoro di Dimitri Tiomkin, incline a mutare di tono col variare delle condizioni psicologiche di Terry e Ruth.
Nel 1984 venne girato un remake in forma di film tv, diretto da Richard Lang ed interpretato da Jane Seymour (le gemelle Leigh e Tracy), Stephen Collins (dott. Jim Eiseley) e Vincent Gardena (detective Al Church).

 

Pubblicato su Diari di Cineclub n. 86- Settembre 2020

 

 

 

 


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