Non morirò di fame

Torino, oggi. Pier (Michele Di Mauro), un clochard appena giunto in città tramite autostop, si reca in ospedale, a rendere l’ultimo saluto alla moglie. L’uomo, un passato da chef stellato alle spalle con più di un segreto, aveva fatto perdere le sue tracce qualche anno addietro; la figlia, Anna (Chiara Merulla), quindicenne, studentessa al terzo anno di liceo con una grande passione per la musica, sarà affidata alla zia materna, Lucia (Olivia Manescalchi), anche se la ragazza sembrerebbe intenzionata a vivere col padre, “per dargli fastidio”. Pier ha ora trovato alloggio, un capannone in periferia, proprietà dell’amico di vecchia data Annibale (Riccardo Lombardo), e conoscerà presto, nel corso delle sue perlustrazioni all’interno dei cassonetti nei pressi di un rinomato ristorante, un altro senzatetto, Il Granata (Jerzy Stuhr), anche lui con dei trascorsi oscuri ed egualmente intento ad approfittare del giornaliero spreco alimentare. Tanto è, infatti, il cibo gettato via dalla grande distribuzione o nell’ambito dei mercati cittadini, in quanto, rispettivamente, prossimo alla scadenza o scartato perché non più “bello da vedere”, ma ancora del tutto idoneo alla preparazione di succulenti manicaretti, come evidenziano le originali preparazioni in cui si cimenta felicemente l’ex cuoco. Una volta che Anna si sarà sistemata da Pier, nonostante le rimostranze della zia, il loro rapporto supererà gradualmente le barriere del reciproco conflitto e dell’incomprensione: il genitore si adopererà infatti perché la figlia possa frequentare una prestigiosa scuola musicale in Canada, anche se la sua arte profusa nell’utilizzo degli alimenti destinati alla discarica lo porterà presto a scontrarsi con le storture proprie del sistema…

Michele Di Mauro

Diretto da Umberto Spinazzola, alla sua terza regia cinematografica (Cous cous, 1996; L’ultimo Crodino, 2009), autore anche della sceneggiatura insieme ad Alessia Rotondo, Non morirò di fame rivela alla visione, nel tentativo, non del tutto riuscito, di mescolare ironia e dramma, un merito precipuo, ovvero affrontare la tematica certo spinosa dello spreco alimentare, ponendo in risalto, attraverso lo sguardo sospeso tra disillusione e disincanto proprio del protagonista, la primaria valenza del cibo in quanto tale, necessario mezzo di sostentamento e potenziale apportatore di sana convivialità, andando poi a rimarcare quella sproporzione e quello squilibrio che vanno ad interessare, reciprocamente e sinergicamente, produttori e distributori ma anche noi consumatori. Dalla necessità ossessiva del “frigorifero sempre pieno” quale immagine di abbondanza, a ciò che finisce ogni giorno nel pattume, in barba a quanti penano per fame ed indigenza, un sonoro ceffone alle tante sofferenze e problematiche legate all’alimentazione, fino a creare il mito illusorio della “società del benessere”, che può permettersi il lusso di mandare gli alimenti, spesso prodotti in sovrappiù, al macero. Peccato quindi che la sceneggiatura nel corso della narrazione riveli qualche cedimento, girando in lungo e in largo intorno lo stesso punto ma senza rinvenire una concreta incisività, al pari di una regia che mi è parsa soprattutto illustrativa, in affanno quando si tratta di visualizzare i vari flashback inerenti al passato di Pier, che, forse, frammentano e dilungano fin troppo l’incedere della storia.

Chiara Merulla e Di Mauro

Nonostante ciò, ritengo comunque che Non morirò di fame possa ritenersi una realizzazione complessivamente piacevole, meritevole di una visione e foriera di sicure riflessioni, vuoi nella considerazione delle descritte, interessanti, tematiche, vuoi per le valide caratterizzazioni dei personaggi offerte dall’intero cast, vuoi, infine, per la delicatezza con la quale mette in scena il recupero progressivo del rapporto padre-figlia, così eguali, così diversi, ma anche la dignità propria di quanti provano a rimettersi in gioco nel ritrovare la propria laboriosità e la propria inventiva al di là della mera capacità d’arrangiarsi, cercando di far sì che possa essere condivisa con quanti ne possano trarre vantaggio, in nome di una ritrovata umanità, schierandosi al di fuori del formale apparato sociale nella ferma convinzione di poter fare la differenza superando i confini di quella “grande omologazione”, incapace di concedere spazio vitale, fino a disconoscerne il valore fondante, alla diversificazione apportata da ogni singolo individuo in quanto tale. Rimarchevole, poi, la rilevanza data alla perdita connotativa del cibo in guisa di sacrale bene primario, sacrificata sull’altare di una valorizzazione estetica da programma televisivo e di una ostentata ma falsa abbondanza, artificio messo in atto in nome del profitto e del perpetrare l’idea di un benessere omologato, riprendendo in chiusura quanto scritto nel corso dell’articolo, nel cui ambito ogni cosa è apparentemente alla portata di tutti, ma in realtà, citando Shakespeare, per quanto si possa essere accomunati dall’essere attori su di un identico palcoscenico, non sempre lo si è nella qualità di commensali alla stessa tavola.

Jerzy Stuhr

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