Nella cornice, non certo splendida, della società attuale, spesso incline a circoscrivere “una realtà altra” nell’ambito di schermi dalle varie misure e dove “strisciano sulla superficie del pianeta degli insetti chiamati razza umana persi nel tempo, e persi nello spazio e nel significato”, citando il finale dell’adattamento per il grande schermo del musical di Richard O’ Brien The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975), il nuovo libro di Claudio Sottocornola, Fiorire nel deserto. Per una filosofia della speranza (Editrice Velar), rivela nelle sue pagine una provvidenziale fonte di luce per far sì che un’ umanità sempre più incredula e smarrita veda rischiarato il cammino che conduce verso un ritrovato abbraccio fiduciario nei riguardi di se stessa e dell’ “altro da sé”, quel prossimo indicato nei Vangeli quale espressione conclamata di un amore totalizzante. Siamo di fronte ad una raccolta di scritti, tratti da precedenti opere realizzate dall’autore nel corso degli anni, a partire dal 2010, più un inedito costituito dall’ultimo capitolo e che dà il titolo all’opera, i quali si sostanziano in una serie di riflessioni filosofiche. Queste riflessioni, nell’ambito di una dimensione teologica, prendono il via da quelle inevitabili domande che tutti noi ci poniamo relativamente al significato da conferire alla quotidiana esistenza, in particolare quando, obnubilati dall’indifferenza e dalla sopraffazione, all’interno di un sistema volto ad un progresso prettamente materiale, non riusciamo a rinvenirlo per il tramite delle nostre azioni, dei nostri abituali comportamenti ed atteggiamenti.

Claudio Sottocornola

L’attività d’insegnamento esercitata dall’autore, ad esempio in vari licei, ha costituito il punto di partenza nell’andare oltre un’impostazione storicistica e il suo imporre una scansione cronologica di temi ed autori, cui si accompagna spesso un approccio teso alla memorizzazione delle diverse teorie che si sono succedute nel tempo, preferendo a tutto ciò una più radicale metodologia articolata per argomenti e problemi, intesa a guardare certo alla storia del pensiero, ma anche a tutti quei fenomeni della vita che attraversano la nostra sensibilità, fino a costituire il personale bagaglio di un comune viaggio terreno, dal dolore al sogno, dall’elaborazione di una perdita allo scontrarsi con il male e le sue varie forme. Ecco allora che, tra gli interventi diretti degli alunni e la condivisione delle esperienze, non solo la teoria andava a lambire i confini della pratica, ma si rendeva anche possibile teorizzare a partire da quest’ultima, ovvero dalla vita considerata nel suo complesso, altalenante tra difficoltà e speranza, contraddizioni e ambiguità: la filosofia, non più esclusivamente teoretica, contribuisce allora ad apportare un inedito senso di consapevolezza, così come di determinazione e fiducia. Si riprende quanto già delineato da Socrate, dalle scuole ellenistiche, ma anche da Sant’Agostino e da vari pensatori medievali, ovvero rinvenire il bisogno urgente di verità all’interno dell’umana esistenza, riscoprendo valori quali la condivisione di una concreta eguaglianza fondata sulla diversità di ciascun essere umano, in quanto tale e nelle sue esternazioni dell’essere.

(Freepik)

L’insegnamento ha quindi costituito per Sottocornola uno stimolo per generare un’ attività di riflessione e scrittura che ha trovato attuazione in una serie di saggi mémoire, partire dalle proprie esperienze di vita e da qui delineare considerazioni teoretiche all’insegna della variabilità di forme e modalità espressive, filosofiche e teleologiche, certo, ma concretamente immerse nel quotidiano, fino a focalizzare il punto estremo di una ricerca sempre in divenire, volta a recuperare memoria e senso della spiritualità, per culminare infine in uno sguardo ermeneutico. Quest’ultimo si mantiene distante dall’ideologia e dai conseguenti relativismi e dogmatismi, preservando comunque un ricercato equilibrio tra la deferenza per tutto ciò che è intorno a noi, comprendendovi i diversificati modelli che ne costituiscono l’espressione, e il mantenere ferma la propria sfera primigenia e culturale, entro la quale si rinviene “l’unica occasione autentica di assunzione del proprio vissuto, un’intersezione spazio-temporale evocata proprio nella geometria della croce cristiana, come luogo dell’accettazione del tutto nella parte, ovvero come luogo manifestativo dell’Assoluto nel relativo”, riprendendo dall’introduzione le parole dell’autore. Nel citato approccio ermeneutico diviene quindi rilevante il riferimento “al grande patrimonio sapienzale e di fede della tradizione cristiana, considerata come luogo di deposito di una verità autentica, profonda, esistenziale e teologica”, travalicando però l’ormai stanca dicotomia dell’essere o non essere credenti per condurci quindi ad interrogarci sulla natura della nostra fede, se questa abbia caratteristiche tali da permetterci di superare l’ormai dominante e gretto individualismo, elevandosi da istituzionalità e dottrina, entrambe dal retrogusto farisaico.

(San Francesco)

Perché oggi possa avere ancora un senso discernere di Dio e della sua esistenza, all’interno di una una società divenuta villaggio globale e prona a logiche edoniste di mercato anche nell’ambito culturale, è certo necessario, indispensabile, riscoprire e riappropriarsi della propria spiritualità, conferendole però, al contempo, il valore portante dell’universalità. Occorrerebbe attuarla, cioè, non in chiave di una contrapposizione, quali “eserciti l’un contro l’altro armati”, tra il pensiero unico di matrice consumistica-tardo capitalistica e quello invece delineato in chiave integralista da una qualsivoglia religiosità confessionale (islamica, protestante, cattolica), in quanto la coerenza dei valori non può trasmutarsi in una forma di intolleranza. Bisognerebbe invece assumere consapevolezza che il pluralismo non nega l’unità, supportando così l’evoluzione da una fede meramente confessionale ad una fede che si tramuti in fiducia, in spirito e forza di relazione esistenziale. Ogni religione ha infatti il suo apporto culturale da decodificare e contemplare, un linguaggio che parla di Dio, ma un Dio lontano dal testo catechistico, dal santino idolatrato, che sa farsi sia uomo tra gli uomini, sia Padre che si aspetta e pretende dai suoi figli non il sacrificio, ma la misericordia, il rispetto per se stessi e conseguentemente per gli altri, per il prossimo.

(Guida Bimbi)

Il miracolo del fiorire nel deserto, “una forma di elezione per la quale non possiamo fare altro che ringraziare”, sarà allora reso tangibile dalla congiunzione delle riflessioni sopra descritte riguardo la religiosità o, meglio, la necessarietà di una spiritualità che ci riconduca ad una esistenza più autentica, felice, matura, all’ulteriore constatazione di quanto sia altrettanto necessario per tutti noi focalizzare l’attenzione “sul qui e ora della vita”, in particolare una volta acquisite numerose, variabili, esperienze nel nostro curriculum esistenziale e constatato, come cantava Tenco, che “i sogni sono ancora sogni e l’avvenire è ormai quasi passato (Un giorno dopo l’altro, 1966). Sottocornola chiude infatti la narrazione citando il Salmo 62*, Salmo di Davide quando dimorava nel deserto di Giuda,  rimarcando l’approdo felice a un superiore grado di libertà, in quanto l’attualità del nostro esistere potrà forse non collimare con le nostre aspettative, ma certamente sarà “idoneo a venire da esse trasfigurato nel segno di quel desiderio che è il vero mistero da decifrare e, forse, l’incarnazione stessa di una trascendenza che, abitandoci, continuamente ci ferisce per rivelarsi e, alla fine, manifestarsi anche grazie a noi e alla nostra azione nel divenire di un mondo la cui creazione non è mai del tutto cessata”. Un ritrovato e pregnante senso di adorazione verso tutto ciò che ci circonda e ci sovrasta, il quale sottintende fiducia ed affidamento all’Assoluto, ritrovando la consapevolezza della propria primigenia essenza nel rapporto con sé e con quanti ci sono vicino, non potrà allora che traghettarci verso l’indomita speranza di un “orizzonte salvifico, taumaturgico, trasfigurante”. Come sosteneva Josè Saramago, “Dentro di noi c’è qualcosa che non ha nome e quella cosa è ciò che noi siamo”.

*O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,

di te ha sete l’anima mia,

a te anela la mia carne,

come terra deserta,

arida, senz’acqua.

Così nel santuario ti ho cercato,

per contemplare la tua potenza e la tua gloria.

Poiché la tua grazia vale più della vita,

le mie labbra diranno la tua lode.

Così ti benedirò finché io viva,

nel tuo nome alzerò le mie mani.

Mi sazierò come a lauto convito,

e con voci di gioia ti loderà la mia bocca.

Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo

e penso a te nelle veglie notturne,

a te che sei stato il mio aiuto,

esulto di gioia all’ombra delle tue ali.

A te si stringe l’anima mia

e la forza della tua destra mi sostiene.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

In voga