
Stati Uniti d’America, anni ‘50. Lo scienziato Barnaby Fulton (Cary Grant), felicemente sposato con Edwina (Ginger Rogers), che lo asseconda nelle sue stramberie e continue distrazioni, sta lavorando ad un importante esperimento all’interno della Oxley Chemical, al quale è particolarmente interessato l’anziano proprietario e presidente Mr. Oxley (Charles Coburn), la creazione di un’innovativa formula che dovrebbe garantire l’eterna giovinezza, al pari dell’acqua sgorgante dalla leggendaria sorgente.
Purtroppo il risultato è ancora lontano da una concreta fattibilità, dopo gli esperimenti sullo scimpanzé Rudolph, di età equivalente ai 78 anni umani, ora affiancato dalla nuova arrivata, Esther. Sarà proprio quest’ultima, imitando quanto visto mettere in atto dal luminare nel miscelare i vari ingredienti, a dar vita al rivoluzionario preparato, che però, all’insaputa di tutti, andrà a finire nel distributore d’acqua potabile del laboratorio. E così, quando Fulton deciderà di provare l’inedita formulazione di persona, abbeverandosi subitamente causa il retrogusto amarognolo della pozione, gli straordinari effetti di quanto creato casualmente dal primate non tarderanno a manifestarsi.
Il nostro infatti potrà fare a meno d’inforcare le spesse lenti da vista, scompariranno i reumatismi, fino ad avvertire l’esigenza di un nuovo taglio di capelli e di svecchiare il vestiario, prodigandosi poi nell’acquisto di una fiammante roadster d’importazione a sostituire la preventivata giardinetta. E non è finita qui, visto che avrà a fianco delle sue scorribande, tra tuffi in piscina e capitomboli sulla pista di pattinaggio, la segretaria di Oxley, Lois Lauren (Marilyn Monroe), giovane donna affascinante e apparentemente frivola, di cui il buon Barnaby ha già potuto constatare “la bontà degli acetati”, ovvero la qualità delle calze di sua invenzione.
Una volta finito l’effetto della formula, Barnaby si prodigherà nel produrne di nuova, ma sarà Edwina a volerla provare, finendo anche lei col bere l’acqua del distributore, con esiti ancora più imprevedibili, che andranno a coinvolgere l’avvocato Hank Enthwisle (Hugh Marlowe), amico di famiglia e suo ex fidanzato, nonché, infine, l’intero apparato della Oxley…
Sceneggiato da Charles Lederer, I.A. L. Diamond, Ben Hecht, per la regia di Howard Hawks, Monkey Business riprende alla grande gli stilemi propri della screwball comedy degli anni ‘30, per quanto all’epoca della sua uscita sugli schermi non venne salutato da recensioni del tutto positive, con l’eccezione delle lodi esternate dai francesi dei Cahiers Du Cinéma.
Lo stesso Hawks ebbe a riconoscere come alcune situazioni all’interno della narrazione si rivelassero fin troppo ripetitive, rinvenendo quale giustificazione al riguardo l’insistenza di Ginger Rogers a prevedere nella sceneggiatura che anche il suo personaggio testasse su di sé l’inedito Gerovital, andando quindi incontro alle identiche incursioni del consorte nella cosiddetta età della spensieratezza.
Comunque, nel guardarla oggi e sempre contestualizzandone l’anno di realizzazione, non si può fare a meno di constatare come, pur nell’impatto complessivo forse inferiore quanto ad incisività ad altre opere del poliedrico e spesso sottilmente sulfureo cineasta, la pellicola regga benissimo l’inevitabile scorrere temporale, vuoi per l’ottimo lavoro di scrittura, dialoghi brillanti, battute più che allusive, l’imbastitura di situazioni sconfinanti nel puro slapstick (la baraonda finale, le prodezze di Barnaby ed Edwina, rispettivamente Grant e Rogers in stato di grazia per spontaneità recitativa, espressa anche nella mimica facciale o nel gioco di sguardi), vuoi per l’attenzione registica espressa nella messa in scena, offrendo concreto risalto alle interpretazioni attoriali e alle varie situazioni che si vengono a creare, assecondandone l’incedere con fare divertito, ancor prima che divertente.
Hawks si fa beffe sia delle convenzioni cinematografiche, il ripetuto ingresso in scena in anticipo, sui titoli di testa di Barnaby con fare svagato e sguardo perso chissà in quale astrazione mentale, che sociali, rimarcando, per il tramite di un sottile sarcasmo, di come il ritorno alla condizione “primordiale” propria degli istinti giovanili, quando non addirittura alla genuinità espansiva e fantasiosa dello stato infantile (la sequenza in cui il buon Barnaby si erge a capo di una tribù di nativi americani, bambini intenti a giocare impersonandoli, esigendo lo scalpo del presunto rivale in amore), non possa far altro che andare a creare, in particolare ove esternata da un aspetto fisico del tutto distante dall’età palesata in virtù delle proprie gesta, un effetto stridente e sconsiderato, idoneo a sovvertire l’ordine sociale imposto dai convenzionali parametri di riferimento.
Se già la sequenza iniziale, sorta di prologo a presentazione delle indoli caratteriali dei due protagonisti, si diverte a scombinare la ritualità del menage matrimoniale, il successivo incalzare delle tante gag volte al paradosso è certo foriero di sane risate, vedi, ad esempio, il ritorno di Edwina allo stato giovanile, quando si ritroverà a gestire quella che ora ritiene la prima notte di nozze con quel bruto di Barnaby, o lo scambio di quest’ultimo con un tenero bimbetto, facendo supporre che abbia ingurgitato una dose eccessiva del miracoloso preparato.
Da evidenziare poi la presenza nel cast di una Marilyn Monroe alle prese, efficacemente, col ruolo in cui verrà spesso “consacrata”, la svanita pro domo sua, intenta ad adattarsi coi suoi atteggiamenti a quanto gli uomini si aspettano da lei sulla base di retrivi codici comportamentali, così come appare gustosa anche l’interpretazione dell’ineffabile Coburn, irrequieto ganimede alle prese con “gli ultimi fuochi”.
Monkey Business, che condivide il titolo con un film dei fratelli Marx, per quanto considerabile quale opera per certi versi minore nella filmografia di Hawks, non è certo immune da toni piacevolmente dissacranti e vagamente misogini propri dell’autore, riprendendo in chiusura quanto scritto nel corso dell’articolo, non dimenticando poi di esternare, lungi comunque dal moraleggiare, un’efficace riflessione per bocca del protagonista: “E’ vecchio solo chi dimentica di essere giovane. E’ una parola che si custodisce nel cuore, una luce che brilla negli occhi, una persona che ti tiene tra le braccia”.
In breve, la gioventù può sostanziarsi nelle forme di uno stato mentale da coltivare nel tempo, accettandone ed assecondandone il suo incessante ed inevitabile fluire, infondendogli senso con la bontà delle proprie azioni da esternare nel corso dell’incedere quotidiano.
Pubblicato su Diari di Cineclub N. 117- Giugno 2023






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