(MyMovies)

Grazie alla felice intuizione del titolare di un cinema sito in una cittadina poco distante dal mio paesello di residenza, concretizzatasi nell’organizzare una rassegna estiva all’aperto, ho potuto accingermi a recuperare la visione di titoli che, per i motivi più vari, erano sfuggiti alla mia attenzione, a partire da Il primo giorno della mia vita, diretto da Paolo Genovese, anche autore della sceneggiatura insieme a Paolo Costella, Rolando Ravello e Isabella Aguilar, film che ha poi come soggetto l’omonimo romanzo del regista, edito da Einaudi nel 2018.

Per stessa ammissione dell’autore, inoltre, ulteriore fonte d’ispirazione la si è rinvenuta nel documentario The Bridge (Eric Steel, 2006), il cui iter narrativo è costituito da una serie di riprese amatoriali effettuate tra gennaio e dicembre del 2004, registrando 24 suicidi dal Golden Gate Bridge di San Francisco: se in tale realizzazione ci si soffermava sui fatidici sette secondi intercorrenti tra la scelta di porre fine alla propria esistenza e il pentimento provato al momento dell’atto, nella pellicola italiana identico numero sta invece ad indicare i giorni concessi da una sorta di novello Caronte (Toni Servillo), probabile rappresentante di un precipuo ideale d’umanità, tra misericordia e compassione, a quattro persone, tre adulti e un ragazzino, per riflettere sulla decisione presa di suicidarsi, ponendoli di fronte a due visioni, la prosecuzione della vita dopo la loro scomparsa e come invece potrebbe essere una volta che abbiano scelto di desistere dall’intento di porre volontariamente fine al proprio viaggio terreno.

Arianna (Margherita Buy), poliziotta, si è sparata un colpo di pistola, tormentata dalla precoce scomparsa della figlia quindicenne nel corso di una partita di pallavolo, causa una rara malattia cardiaca. E’ sconvolta in particolare per il non avvertire più alcuna emozione al riguardo, a partire da quell’insinuante dolore che nel passare degli anni le è sempre stato fedele compagno; Emilia (Sara Serraiocco), ginnasta i cui sacrifici e la costanza negli allenamenti hanno visto come premio un eterno secondo posto, costretta sulla sedia a rotelle dopo un incidente, l’ha fatta finita lanciandosi nel vuoto dall’ultimo piano di un palazzo; Napoleone (Valerio Mastandrea), intraprendente coach motivazionale, si è visto avvolgere da quel subdolo e silenzioso “mal di vivere” che ti trascina impietosamente nei suoi gorghi quando pensi di avere tutto a disposizione e sotto controllo, ma in realtà avverti sempre la mancanza di un inspiegabile “qualcosa”, una insoddisfazione esistenziale risolta con il “classico” tuffo da un ponte; Daniele (Gabriele Cristini), è in stato di coma dopo aver mandato giù una guantiera colma di brioche, filmando il tutto su YouTube, come d’abitudine, stimolato al riguardo da un padre più attento ai like e al numero dei follower quale distorta rivalsa sociale che alle pressanti problematiche di un figlio sovrappeso, bullizzato dai coetanei, accondiscendente solo per coltivare la speranza di una benché minima considerazione da parte dei suoi familiari.

Ognuno di loro, al termine del tempo concessogli, una volta constatato, ad esempio, di quanto occorra avere nostalgia della felicità così da perseguire la voglia di cercarla o di come ciascuno di noi sia egualmente sostituibile nella sua essenza più propriamente tangibile, al pari di una conclamata unicità nell’esternazione della propria personalità, rinverrà una ragione per proseguire il percorso interrotto, anche nel conforto di un ritrovato contatto umano, oppure per concluderlo definitivamente, dando comunque il via ad un inedito inizio…

Opera per molti versi coraggiosa all’interno della nostra attuale produzione filmica, Il primo giorno della mia vita, pur non propriamente inedita relativamente all’assunto narrativo (penso al romanzo di Nick Hornby A Long Way Down, Non buttiamoci giù, 2005, trasposto in film nel 2014 per la regia di Pascal Chaumeil, ma anche al classico dickensiano A Christmas Carol, 1843), ha comunque quale pregio essenziale, almeno a parere dello scrivente, di gettare un ponte sospeso tra la riva della realtà quotidiana e quella della sua circoscrizione in un momentaneo mondo a parte dove “non si è né morti né vivi”, delimitato dai comportamenti dei quattro personaggi nel reagire a quanto il misterioso “Uomo” (cui si affianca l’ altrettanto misteriosa “Donna”, Vittoria Puccini) proporrà gradualmente loro per ricondurli ad una condizione che possa definirsi concretamente e definitivamente umana, provando a vivere ogni giorno del proprio incedere terreno con il candore del fanciullo che si affaccia al mondo per la prima volta, andando ad individuare quello scomposto alternarsi di gioia e dolore che ci rende “tutti attori sul medesimo palcoscenico”.

Se il lavoro di scrittura, come probabilmente già notato da molti, a volte può sembrare fin troppo calcolato, nonché didascalico nella resa di qualche dialogo o frase ad effetto, credo invece che meriti elogi la direzione degli attori, nella valorizzazione della loro resa interpretativa, così come la suggestiva compenetrazione tra narrazione ed ambiente, da soppesato noir, con la città di Roma fotografata da Fabrizio Lucci nei suoi luoghi meno turistici, alternando tonalità cupe ad altre vertenti ad una luminosità giallognola, mentre la colonna sonora di Maurizio Filardo appare funzionale, mai stridente con l’andamento narrativo.

Se Servillo è sempre sorprendente per naturalezza e sobrietà recitativa, così come Buy, Serraiocco e Mastandrea offrono interpretazioni piuttosto toccanti tra, rispettivamente, malcelato rancore, rabbia repressa per una insoddisfazione generata da una debole autostima, disadattamento nei riguardi di ogni forma/convenzione sociale, mascherato da cinismo e sarcasmo, non è da sottovalutare la resa del giovane Cristini.

Nei suoi bronci e nello sguardo contrariato esprime infatti tutto il malcontento per la scarsa attenzione dei genitori nei suoi riguardi, a parte l’espediente di utilizzarlo, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, quale pedina da muovere opportunamente per un personale tornaconto.

Il primo giorno della mia vita, andando a concludere, può quindi risultare un film imperfetto nel suo insistere sul non detto e nel rimarcare la descritta atmosfera sospesa, però ritengo riesca a volgere uno sguardo attento su problematiche sociali pressanti, quali il suicidio e la mancata condivisione concretamente emozionale della comune condizione umana.

Probabilmente una scrittura appena un po’ più sciolta e qualche ulteriore azzardo visivo avrebbero conferito la classica marcia in più, ma anche in tale sua declinazione rende testimonianza alla possibilità di un “cinema altro”, capace di spaziare tra i generi nella ricerca di una concreta autorialità.

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