
Pubblico di seguito la trascrizione dei testi redatti dallo scrivente per la trasmissione Sunset Boulevard andata in onda ieri pomeriggio, martedì 25 luglio (replica sabato, ore 10), su Radio Gamma, con una scaletta incentrata sulle proiezioni previste nel corso di questa settimana all’interno della manifestazione cinematografica-musicale FilMuzik Arts Festival, la cui V Edizione, per la direzione artistica del regista Alberto Gatto, ha avuto inizio giovedì 20 luglio e proseguirà fino al 3 settembre nel giardino di Palazzo Amaduri a Gioiosa Ionica (RC).
Dallo scorso martedì, 18 luglio, infatti, la trasmissione radiofonica ospita la disamina dei film in proiezione al Festival, compresi quelli che sono stati selezionati nell’ambito delle opere pervenute, mentre al di fuori della consueta programmazione del martedì sarà trasmesso uno speciale, dedicato alle interviste con alcuni protagonisti della kermesse, come quella annessa all’articolo, che mi vede chiacchierare con Alberto Gatto.
Un click (o un tocco col dito) qui per informazioni sul programma del Festival
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Hellheaven, cortometraggio di Pasquale Napolitano, descrive attraverso l’intercalare di immagini, ricorrendo allo split screen in guisa di frenetico caleidoscopio, una serata all’interno di un noto locale partenopeo, tempio dell’hip hop. Viene così visualizzata, rimarcata anche dai commenti dei giovani frequentatori, la loro ricerca di una sorta di “nirvana alternativo”, terreno, tangibile, con la musica a farsi carico di mediare tra l’ansia del vivere e il malumore sociale derivante da una non sempre facile integrazione con l’ordinarietà del quotidiano (27 luglio, ore 22).
Dark Madonna è un videoclip musicale diretto da Alon Shai, sulle note del brano eseguito dai Rain Dirty Valleys, che, in virtù di suggestive inquadrature e particolari soluzioni visive a sostenere un’atmosfera sospesa tra il lisergico e l’onirico, ne asseconda, esaltandole, le note evocative proprie dello psych-rock di cui la band di Tel Aviv si rende portatrice (29 luglio, ore 22).
Bill Murray Lost in Berlinale, cortometraggio diretto dalla regista serba Ana Trkulja, si palesa alla visione come una divertente riflessione relativa all’essenza dell’apparire, giocando sulla comparsa di Bill Murray a firmare autografi all’ingresso del Berlinale Palast e sulla sua improvvisa scomparsa, girata quest’ultima in bianco e nero, vertendo sulla soggettività, andando a raffigurare il sognato/desiderato stacco dal rituale proprio della notorietà (30 luglio, ore 22).
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Rock of Ages (2012), 27 luglio, dopo la proiezione di Hellheaven. Adattamento cinematografico, per la regia di Adam Shankman, dell’omonimo jukebox musical off Broadway del 2005 di Chris D’Arienzo, autore della sceneggiatura insieme a Justin Theroux, Allan Loeb, Michael Arndt, Jordan Roberts, Rock of Ages ne riprende l’impostazione generale, pur con varie modifiche, quali l’introduzione di inediti personaggi. 1987, dalla natia Oklahoma giunge in quel di Los Angeles la giovane Sherrie Christian (Julianne Hough), una valigia carica di dischi e la coltivata chimera di divenire cantante.
Il bagaglio le verrà presto sottratto senza troppi complimenti, nonostante l’intervento del coetaneo Drew Boley (Diego Boneta), anche lui aspirante cantante, al momento tra gli impiegati del famoso Bourbon Room, sul Sunset Strip, gestito dai reduci, in senso musicale, Dennis Dupree (Alec Baldwin) e Lonny Barnett (Russell Brand). Oppressi dai debiti, i due sperano di risollevare le sorti del locale con il concerto dell’acclamata star Stacee Jaxx (Tom Cruise), leader della band degli Arsenal, manovrato dal luciferino manager Paul Gill (Paul Giamatti) e libertino cantore di una vita sregolata, “all’insegna di tutti i vizi esistenti e qualcuno di sua invenzione”.
Contro di lui e la musica rock in genere si schiera un movimento di benpensanti, guidato dalla feroce Patricia Withmore (Catherine Zeta-Jones), consorte del sindaco (Bryan Cranston). Sherrie verrà assunta come cameriera al Bourbon, andando presto ad intrecciare una relazione con Drew, impostando identica “modalità sogno” nell’adattarsi alla quotidianità in attesa di tempi migliori, ma la realtà si farà presto viva a chiedere il conto…
Shankman, anche in forza dell’esperienza come coreografo, si rivela piuttosto abile nel suffragare una spettacolarizzazione dei ricordi propri di quegli anni ’80 in cui la musica rock, pur nelle sue evoluzioni e contaminazioni, aveva ancora qualcosa da dire, nell’alternanza, “agitata, non mescolata”, di spensieratezza, trasgressione e sonorità trascinanti.
Riesce infatti a vitalizzare, in particolare nelle sequenze musicali, un intreccio narrativo non sempre esaltante nella sua prevedibilità, per quanto foriero di una suggestiva fluidità, con qualche momento di stanca nella parte centrale, almeno ad avviso di chi scrive, per poi riprendersi in un rutilante finale dove ogni sogno finora rimasto nel cassetto, o dissolto da una troppa rapida esposizione alle luci diurne, troverà la sua concreta definizione.
Nel susseguirsi convulso di note hit del periodo a contornare accadimenti, situazioni e stati d’animo, sostenuto da un cast incline ad apportare una concreta coralità, più che i due giovani protagonisti, le cui caratterizzazioni attoriali non vanno al di là di quelle proprie di un canonico teen drama, risaltano personaggi secondari quali un insolito Baldwin, nostalgico e, per certi versi, ingenuo ed idealista cantore del rock che fu, aduso ad esternare un cinismo in forma di legittima difesa, l’aggressiva Zeta-Jones, la cui Patricia nasconde dietro il velo della moralità un insospettabile passato, ma soprattutto uno scintillante Tom Cruise.
Quest’ultimo conferisce congrua fisicità, tra tormento ed estasi (guidata dallo…spirito), ad un rocker avvinazzato ma lucido quanto basta nel comprendere appieno, grazie anche all’ausilio di una insospettabile musa (la giornalista Constance Sack, interpretata da Malin Åkerman), l’illusorietà propria del mondo dello spettacolo e i suoi ingranaggi, oliati a dovere in nome del subitaneo profitto e della fama pronto uso, rendendo l’interiorità un accessorio velleitario (vedi, a contraltare, la trasformazione di Drew in rapper ad opera di Paul, snaturandone l’inclinazione artistica).
Per quanto prevedibile nei citati schematismi e con qualche appesantimento in ordine sparso, Rock of Ages riesce a divertire e coinvolgere, spingendoci a cavalcare l’onda lunga dei ricordi in nome di una sana spensieratezza.
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The Greatest Showman (2017), 30 luglio, dopo la proiezione di Bill Murray Lost in Berlinale. Diretto dall’esordiente Michael Gracey, su sceneggiatura di Jenny Bricks e Bill Condon, The Greatest Showman rappresenta uno dei rari esempi recenti di musical non basato su di un precedente lavoro teatrale, con una colonna sonora composta da John Debney, Joseph Trapanese, Pasek & Paul, il cui singolo This Is Me ha vinto il Golden Globe nel 2018 come Miglior Canzone Originale.
Un’opera che coinvolge già dalla bella sequenza iniziale, con il vulcanico Phineas Taylor Barnum (Hugh Jackman) ad emergere dal buio del dietro le quinte per presentare il suo luccicante spettacolo, sogno tangibile di un immaginario fantasticato ed ora finalmente slegato dalle pastoie dell’incedere quotidiano.
Gracey cerca di conciliare lungo l’iter narrativo emozionalità e spettacolarità, preferendo sempre e comunque, almeno a mio avviso, avallare la scelta di scrittura intesa ad offrire un’aura romanzata più che propriamente realistica alla figura del grande intrattenitore, il quale, destreggiandosi tra varie ambiguità, in fondo intendeva professare, riprendendo le sue stesse parole, nient’altro che “la nobile arte di rendere gli altri felici”.
Dopo la citata pirotecnica sequenza di apertura, il film sembra adagiarsi su stilemi più convenzionali, il racconto dell’infanzia di P. T., figlio di un modesto sarto, in quel di Bethel, Connecticut, l’amore, contrastato dalla famiglia upper class, verso Charity (Michelle Williams, da adulta), ricambiato, che sposerà, andando a vivere in un modesto appartamento a Manhattan, cercando di provvedere alla famiglia, allietata dalla nascita di due bambine, con un lavoro all’interno di una compagnia di navigazione, fino a quando quest’ultima non andrà incontro al fallimento.
Ma il nostro non si darà per vinto, con un sotterfugio otterrà un finanziamento dalla banca per aprire una sorta di museo delle cere, tra animali e personaggi storici, che però non riscontrerà alcun successo, fino a quando non darà seguito ad un’idea della figlia, ovvero proporre “qualcosa di vivo”.
Allestirà quindi un vero e proprio spettacolo di “stranezze”, reclutando quelli che all’epoca venivano definiti freaks, “scherzi di natura”, ingentilendo la traduzione nel nostro idioma, dalla donna barbuta al nano, passando per l’uomo più alto del mondo o quello più pesante. La gente accorrerà in massa, almeno quella d’estrazione popolare, ma P.T. vorrebbe conquistare le classi più agiate, gli intellettuali come i critici teatrali, ecco perché darà vita ad una società con il drammaturgo Phillip Carlyle (Zac Efron), fino ad essere ricevuto dalla Regina Vittoria e poi organizzare un tour con la cantante d’opera Jenny Lind (Rebecca Fergunson), perdendo però presto la rotta del sogno condiviso e degli affetti familiari…
All’interno di una messa in scena particolarmente curata relativamente a scenografia (Nathan Crowley, Laura Ballinger, Debra Schutt), fotografia (Seamus McGravey) e costumi (Ellen Mirojnick), così come nella resa delle canzoni e dei numeri musicali in genere, non dimenticando poi le interpretazioni dell’intero cast (Hughman su tutti, mai manierato o eccessivo nel dare corpo all’estroversione egocentrica propria di Barnum), si avverte la mancanza, come credo già notato da molti, di una scrittura più profonda e di una regia meno anodina nell’offrire maggiore incisività a quello che ritengo sia l’asse portante della narrazione filmica, resa emblematica dalla toccante esecuzione della citata canzone This Is Me.
Un elogio della diversità quale valore aggiunto e non scriminante, sia a livello sociale che individuale, con i freaks che, al netto dell’ambiguità propria dell’inserimento nella “macchina spettacolo” ad assicurare sostanziosi incassi, da reietti mutano in persone accettate, almeno per la loro esibizione entro i confini del palcoscenico, insinuando così l’idea di quanto possa essere labile il confine tra una presunta “normalità” ed una anormalità esteriorizzata, anche e non solo, a livello corporale.
The Greatest Showman, andando a concludere, è comunque un film che coinvolge piacevolmente, inducendo anche a riflettere sul ruolo dell’intrattenimento nella vita delle persone, nell’offrire loro la possibilità di varcare il confine che dalla realtà porta alla fantasia, mischiando opportunamente le carte nel porre in essere il gioco del rimpiattino tra la realtà dell’immaginazione e l’immaginazione della realtà.







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