Malesia, Regione del Nord, tempi nostri. Un monaco buddista è intento nel praticare un esorcismo nei riguardi di una donna del posto, affetta da strani disturbi. Un rituale invasivo e violento, tale da infastidire l’americana Jules (Fiona Dourif), componente della troupe televisiva che sta riprendendo il tutto, così da utilizzare il filmato all’interno del programma Skeleton Crew, dedicato al mondo del paranormale.

Ne fanno parte il produttore Matty (Jordan Belfi), compagno di Jules, i fratelli Ben (Harris Dickinson) e Wolf (Randy Wayne), cameraman, la guida locale Annie (Phan Nhu Thao). Stanno per dirigersi a Fraser’s Hill, dopo aver ricevuto una mail dalla coppia americana Ian (William Miller) e Martha (Malin Crépin), acquirenti di una vecchia abitazione al cui interno si verificherebbero inquietanti fenomeni. Jules, le cui doti da medium, dopo un doloroso episodio familiare avvenuto quando era ancora bambina, sono messe al servizio dello show per accertare la veridicità o meno di quanto loro prospettato, dubita che quella casa, nonostante i dettagliati racconti dei proprietari, possa essere interessata ad una infestazione.

Non avverte infatti nulla di extrasensoriale, ma nel corso della notte tanto lei quanto i suoi amici dovranno ricredersi, assistendo a delle violente manifestazioni di possessione, fino a poi scoprire come la magione sia assimilabile ad una matrioska, ogni stanza ne nasconde un’altra e questa a sua volta un determinato segreto, fino a comprendere anche il misterioso passato di Julies…

Distribuito nelle nostre sale dallo scorso 17 agosto, Don’t Look At The Demon vede l’esordio alla regia del malese Brando Lee, cresciuto nutrendosi di film hollywoodiani quali L’esorcista, Lo squalo e Guerre Stellari per poi frequentare il Columbia College di Hollywood, specializzandosi in Cinema e TV e lavorare quindi per diverse produzioni in quel di Los Angeles.

Ha poi dato vita ai Brando Studios B&L Creative, produttori di una serie di progetti televisivi e film distribuiti nelle sale cinematografiche della Malesia, ed infine è stato tra i fondatori di Barnstorm, società di produzione che ha messo in atto il film oggetto dell’articolo.

Questa breve biografia del regista, tratta dalla cartella stampa, è utile per evidenziare come il debutto, su sceneggiatura di Alfie Palermo, denoti una evidente indole derivativa: molti sono infatti i riferimenti a varie pellicole di genere statunitensi, dagli anni ’70 fino ai giorni nostri, tra le quali il menzionato The Exorcist (William Friedkin, 1973) e The Shining (Stanley Kubrick, 1980), titolo chiaramente citato nella sequenza in cui Julies incontra un barista all’interno di un locale dismesso da anni.

Lee si prodiga nel mettere in scena un racconto horror ammantato di toni psicologici e qualche tocco splatter dal retrogusto piacevolmente artigianale, ed asseconda una narrazione classicamente orchestrata, vedi, ad esempio, la “perlustrazione” dall’esterno della casa possibile oggetto d’infestazione resa in soggettiva tramite l’obiettivo della macchina da presa, mentre nubi minacciose si compattano attorno ad essa e la musica assume tonalità piuttosto minacciose, quando non disturbanti.

Cresciuto in una regione di credo musulmano in cui si praticano liberamente altre religioni, Lee punta sul realismo ed elabora una visione del tutto personale, densa di una particolare spiritualità: il film è infatti dedicato alla memoria di Sua Eminenza Kyabje Tsem Rinpoche, omaggiato da Lee in quanto suo maestro, e tende a congiungere gli stilemi orrorifici propri della produzione occidentale, rimarcati da fotografia (Mike Muschamp) e colonna sonora (Vincent Gillioz), ai rituali misterici del mondo orientale.

Ecco al riguardo l’antica pratica, poi vietata, dei Kuman Thong, i feti essiccati dei bambini morti quando erano ancora nell’utero materno, evocati dagli stregoni e da loro adottati come figli, servendosene per pratiche magiche.

Qualche scricchiolo nell’ambito dell’iter narrativo (lo sbandamento sentimentale di Matty, accennato ma non approfondito), o la schematizzazione caratteriale dei personaggi, cui fanno compagnia le poco incisive interpretazioni attoriali, Fiona Dourif a parte, intensa nel rendere dolore rappreso e disillusione, non pregiudica più di tanto la resa visiva o la fluidità complessiva dell’opera.

Un horror, andando a concludere, che soffre di una marcata prevedibilità, ma godibile e avvincente nel rendere la tensione con evidente classicità, riprendendo quanto già scritto, con un finale che offre spazio all’idea dell’inevitabilità del male ove non vi sia un bene da contrapporvi, andando quindi ad infrangere l’equilibrio universale.

Fonte immagine: Ufficio Stampa

Una replica a “Don’t Look At The Demon”

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

In voga