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(Wikipedia)

Non accadeva da un po’ di tempo che lo scrivente uscisse da una sala cinematografica avvolto da un concreto senso di empatica commozione, con tanto di groppo alla gola e lacrimuccia pronta a sgorgare. E’ successo qualche sera addietro, dopo la visione del film L’ultima volta che siamo stati bambini, debutto alla regia dell’attore Claudio Bisio, che ha anche collaborato alla stesura della sceneggiatura insieme a Fabio Bonifacci.

Adattamento dell’omonimo romanzo di Fabio Bartolomei (Edizioni E/O, 2018), la pellicola ha aperto, proiettata in anteprima, l’edizione 2023 del Giffoni Film Festival, ed è in distribuzione da giovedì 12 ottobre, in concomitanza con gli ottant’anni trascorsi dal rastrellamento del Ghetto ebraico di Roma. Era il 16 ottobre 1943, ore 5:15 del mattino, quando le SS tedesche irruppero violentemente nella vita di tante persone, prelevandone 1259, fra le quali oltre 200 bambini, destinazione il campo di Auschwitz – Birkenau.

La fascinazione verso l’opera in analisi ha preso il via già dalla prima sequenza, che, almeno a mio avviso, ne rappresenta la precipua chiave di lettura: dalle cronache in bianco e nero relative alla Capitale occupata dai tedeschi e bombardata dagli americani, siamo nell’estate del 1943, si passa al colore che dà vita alla visualizzazione di un gruppo di ragazzini intenti a “giocare alla guerra”, organizzando, tra l’altro, una contraerea con le loro fionde. Sono Italo (Vincenzo Sebastiani), Cosimo (Alessio Di Domenicantonio), Riccardo (Lorenzo Mc Govern) e discernono anche sull’essere ebreo di quest’ultimo, non rinvenendovi infine nessuna delle “colpe” attribuite dal regime.

Il descritto passaggio evidenzia come il racconto procederà mutuato dal loro sguardo su quanto li circonda, ancora puro, primigenio per certi versi, invitando noi adulti ad immedesimarci nell’ambito di un’identica prospettiva. Italo è figlio del Federale Carlo Alberti Barocci (Claudio Bisio), ha un fratello, Vittorio (Federico Cesari), milite ed eroe di guerra, ferito ad una gamba, familiari che cerca di emulare, da fiero Balilla, nei gesti e nelle azioni, rivendicando così attenzioni su di sé; Cosimo vive col nonno (Antonello Fassari) e il fratellino, la madre è morta, mentre il padre si trova al confino, reo di aver insultato il Duce nel corso di una discussione al bar; Riccardo è figlio di genitori benestanti, commercianti di tessuti.

Al consolidato trio andrà ad aggiungersi la perspicace coetanea Vanda (Carlotta de Leonardis), orfana, che vive in un orfanotrofio gestito dalle suore, trovando conforto nelle premurose attenzioni di Sorella Agnese (Marianna Fontana). Il “patto di sputo” che i quattro andranno a stipulare, certo meno doloroso rispetto a quello “di sangue” previsto dalla maschia fede fascista, salderà definitivamente la loro amicizia.

Infatti, quando, 16 ottobre 1943, Riccardo verrà sequestrato insieme alla sua gente dai nazisti, con destinazione il campo di concentramento, Italo, Cosimo e Vanda daranno vita ad una spedizione per la sua liberazione, partendo di nascosto, anche se Vittorio ed Agnese si metteranno presto sulle loro tracce, così da ricondurli a casa. I tre andranno a conoscere, pur nella gioiosità di compiere una nobile impresa, l’orrore e la crudeltà che l’uomo ha posto in essere contro se stesso, in nome di una ridicola e fallace supremazia.

In pochi casi un esordio dietro la macchina da presa, in particolare dopo varie esperienze attoriali, ha messo in campo la sensibilità e la modestia profuse da Bisio nel far sì che la narrazione in sé prenda il sopravvento, affidandosi totalmente alla bontà recitativa dei piccoli interpreti ed adottando, come su scritto, la loro visione della realtà, offrendo un nitido ritratto delle rispettive psicologie nel prendere coscienza di determinati accadimenti.

La delicatezza del tocco si avverte nella conciliazione messa in atto tra l’urgenza nel conferire materialità a ciò che è riportato sulla pagina scritta e la volontà di evidenziare, tra memoria e attualità, quanto qualsivoglia conflitto, posto in essere per qualsiasi motivo, vada a rappresentare una sconfitta per l’intera umanità, annientando l’innocenza di ognuno, costringendo bambini e ragazzi in genere a crescere necessariamente anzitempo, fino ad interrogarsi sul senso della propria esistenza, anche nel relazionarsi coi propri simili.

Forte di un valido comparto tecnico riguardo fotografia (Italo Petriccione), cangiante nella luminosità, più vivida quando i ragazzini intraprenderanno il loro viaggio, costumi (Beatrice Giannini) e scenografie (Paola Comencini), L’ultima volta che siamo stati bambini, senza necessariamente assecondare il realismo o il fiabesco, si delinea come un classico racconto di formazione in forma di road movie che sembra riprendere, personale sensazione, determinati stilemi della commedia all’italiana propriamente detta nell’assecondare ironia e senso del tragico.

Un viaggio anche interiore, che andrà a riguardare nei suoi sviluppi pure gli adulti Vittorio e Agnese, i quali dovranno mettere in atto una serie di adattamenti esistenziali una volta venute fuori le reciproche personalità, nascoste sotto le maschere, rispettivamente, dell’eroismo “senza se e senza ma” e della fede ad oltranza, a fungere da paravento alle brutture del mondo.

Il Bisio regista, che come attore si ritaglia una breve ma gustosa interpretazione del Federale, irridendo determinati atteggiamenti di “Lui”, tra ostentata spavalderia e fanfaronate un tanto al chilo, adotta uno stile alquanto semplice, funzionale nell’assecondare la sceneggiatura, mai ridondante o fine a se stesso. Alterna piani sequenza a inquadrature fisse nel riprendere i ragazzini, lasciando che siano loro a conferire senso del movimento e fluidità.

Certo, volendo fare un po’ i sofistici, qualche virata al drammatico potrebbe apparire semplicistica, mentre le musiche di Pivio e Aldo De Scalzi, che alternano piacevolmente richiami alle canzoni dell’epoca e tonalità klezmer, a volte possono risultare invasive nel connotare alcune sequenze, delineando un respiro più televisivo che cinematografico.

Comunque la scorrevolezza narrativa, in particolare una volta che l’azione si sposta fuori Roma, è notevole, risaltano in particolare sequenze come quella in cui i ragazzini, appena usciti fuori da una galleria, notano i corpi di due civili uccisi o l’altra in cui fanno conoscenza di una famiglia contadina allo stremo per l’inedia, entrambe emblematiche nel segnare il passaggio ad una inedita concezione dell’esistenza.

Il finale, poi, è di quelli che non si dimenticano: la consegna definitiva alla memoria del preciso istante in cui si è smesso di essere bambini, come da titolo. Si è cresciuti, volenti o nolenti, fino ad introdursi in una dimensione certo lontana dall’originaria purezza dello sguardo.

Ora quest’ultimo è turbato dalle lacrime che gonfiano gli occhi, avvertendo la dolorosa sensazione di aver perso quel genuino disincanto necessario a coltivare una grande illusione, il rimarginarsi definitivo di una ferita sempre aperta, quell’immane tragedia la cui essudazione purulenta è data da una calcolata volontà di dimenticare, di non apprendere dagli orrori passati.

Si costruisce sulle macerie la materialità di un mondo nuovo, un involucro che alla distanza si rivelerà orfano di una concreta pietas, nel perpetuo fallimento di esseri umani in quanto tali, incapaci di concretizzare la speranza di un futuro se non migliore almeno diverso, in nome della compartecipazione e della diversità eguagliatrice, e la realtà quotidiana ce ne rende testimonianza.

Grazie di cuore Bisio, un “cinema altro” è ancora possibile, hai realizzato con estrema onestà d’intenti un’opera che coniuga leggerezza e profondità, nella capacità di parlare ai piccoli e agli adulti con un linguaggio immediato e diretto, rifuggendo da fronzoli declamatori o orpelli sovrastrutturali.

“[…] Come i medici, quando cercano di dare ai fanciulli il ripugnante assenzio, prima gli orli, tutt’attorno al bicchiere, cospargono col dolce e biondo liquore del miele, perché nell’imprevidenza della loro età i fanciulli siano ingannati, non oltre le labbra, e intanto bevano interamente l’amara bevanda dell’assenzio e dall’inganno non ricevano danno, ma al contrario in tal modo risanati riacquistino vigore […] (Lucrezio, De Rerum Natura).

Foto di copertina: Movieplayer

Una replica a “L’ultima volta che siamo stati bambini”

  1. […] Band. Bisio darà il via al festival accompagnando la proiezione del suo primo film da regista, L’ultima volta che siamo stati bambini, tratto dall’omonimo libro di Fabio Bartolomei (Edizioni E/O, 2018), un felice esordio, che, con […]

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