Giuliano Montaldo (Il manifesto)

Regista cinematografico, teatrale e televisivo, ma anche attore, Giuliano Montaldo, che ci ha lasciato lo scorso 6 settembre (Genova, 1930), nella sua attività è riuscito a conciliare, fin dagli esordi (Tiro al piccione, 1961), l’impegno civile e l’interesse per determinati accadimenti o personaggi storici con la capacità di andare incontro al grande pubblico.

Tematiche frequenti nelle sue opere l’imposizione soverchiante del potere nei confronti di quanti andavano ad esprimere idee lontane o comunque contrastanti con l’ordinarietà già omologante di un pensiero che si voleva “unico”(Gott mit uns, 1970; Sacco e Vanzetti, 1971; Giordano Bruno, 1973), così come l’ottundimento morale che andava a contraddistinguere “l’uomo moderno”, al colmo di frustrazioni e fallimenti esistenziali, in un periodo compreso tra il boom economico e i giorni nostri (Una bella grinta, 1965; Il giocattolo, 1979;  L’industriale, 2011).

Dotato di un garbo ed un’ironia ad alta gradazione empatica, Montaldo si è rivelato autore consapevole della potenzialità espressiva del cinema in quanto tale, aprendosi anche alla sperimentazione, come evidenzia il film scelto per ricordarne la  figura, Circuito chiuso, prodotto dalla RAI nel 1978 e presentato in concorso al 28mo Festival di Berlino,  che però venne poi destinato solo al piccolo schermo.

(Coming Soon)

Come infatti spiegato dallo stesso regista nel corso di qualche intervista, e da quanto ha dichiarato Nicola Badalucco, autore della sceneggiatura insieme a Mario Gallo e Montaldo, per la distribuzione cinematografica sarebbe stato necessario rivedere i compensi degli attori, oltre che provvedere a retribuire i componenti della struttura degli sperimentali RAI.

La narrazione prende il via all’esterno di un periferico cinema romano, dove è in proiezione I giorni dell’ira (Tonino Valerii, 1967), spaghetti western con Giuliano Gemma e Lee Van Cleef. Gli spettatori si accingono ad entrare, tra questi una signora anziana (Maria Pia Attanasio) con accompagnatrice (Micaela Pignatelli), due fidanzatini, una coppia di amanti clandestini e un occhialuto signore (Flavio Bucci), il quale però sembra  più interessato ai comportamenti delle persone in sala che alla visione del film.

Al culmine della sequenza finale, la classica resa dei conti tra “il buono” (Giuliano Gemma) e “il cattivo” (William Berger), al colpo di pistola sullo schermo corrisponde un morto in sala, freddato all’istante. Interviene la Polizia, si effettuano i primi rilievi, il commissario (Brizio Montinaro) procede agli interrogatori, impedendo agli spettatori di uscire. Molti dei presenti hanno sì, per un motivo o per un altro, qualcosa da nascondere, ma non di tale portata da far pensare alla possibilità di perpetrare un omicidio.

Flavio Bucci (RaiPlay)

In attesa dell’esame balistico, il vice questore (Luciano Catenacci), decide di ripetere la proiezione, raccomandando alle persone di occupare le stesse poltrone. Il controllore dei biglietti (Gabriele Tozzi),  entrerà a dieci minuti dalla fine, come l’ucciso di cui ha preso il posto. Troverà anche lui la morte al momento dello sparo risolutivo e stessa sorte, rieseguita nuovamente la proiezione, toccherà al questore (Ettore Manni). Il mistero resterà insoluto, anche perché in base al referto balistico  l’arma che ha sparato è una Colt a tamburo del 1863…

Il commissario non potrà fare altro che mandare tutti a casa, tranne l’occhialuto signore, rivelatosi un sociologo. Dapprima lo aveva considerato un folle, ma adesso è disposto ad ascoltare l’esposizione di una sua singolare teoria riguardo l’accaduto…

Curiosa ed intrigante mescolanza tra giallo e fantascienza, Circuito chiuso delinea nel suo iter narrativo, almeno a parere dello scrivente, un’acuta riflessione su due diverse tipologie di potere, che va ad esternarsi con differenti modalità: l’una, sottilmente ironica e beffarda, tesa a descrivere l’ottusità dei funzionari di polizia, il loro non riuscire ad andare oltre il visibile, il materiale, nell’individuare un colpevole, e l’altra, più meditata e metaforica, che, traendo ispirazione dal racconto The Veldt di Ray Bradbury (1959), invita a riflettere sulla potenzialità condizionante delle immagini.

Montaldo si rivela abile nell’imbastire  un meccanismo della tensione in crescendo, sottolineato dall’insinuante motivo sonoro di Egisto Macchi, predilige una certa ponderatezza nello sfruttare la delimitazione narrativa nell’ambito di uno spazio chiuso, rivelando gradualmente determinati particolari inerenti personalità e caratteristiche comportamentali dei vari personaggi, a partire dalla prima vittima, un appassionato cinefilo. Le persone appaiono propense a  coltivare una certa indifferenza (ogni tanto si sentono dei forti rumori provenire dalla strada, forse degli incidenti, routine cui fare spallucce) e in fondo, a parte lo sgomento iniziale, dei morti in sala non  interessa loro alcunché,  concentrate sulla propria individualità e su personali faccende.

Già a partire dai grotteschi spot pubblicitari precedenti la proiezione del film vengono disseminati indizi riguardo l’influenza delle immagini sul comportamento sociale, vedi la presenza, di sequenza in sequenza, dell’arma del delitto, rendendone così evidente la potenzialità “omicida”.

Egualmente avviene nelle fasi successive ai delitti, quando tra le richieste degli spettatori bloccati nella sala, compaiono non solo cibo e quanto necessario per un minimo di cura personale, ma anche un numero adeguato di televisori, così da assicurare la visione di un differente programma.

Da notare, per inciso, a testimonianza della volontà di sperimentare, che la scena del duello venne girata a parte ed inserita in post-produzione. D’altronde, come esplicitato nei titoli di coda, le sequenze che appaiono sullo schermo non appartengono al citato I giorni dell’ira, bensì ad un altro western italico, …e per tetto un cielo di stelle (Giulio Petroni, 1968), sempre con Gemma protagonista.

Nella costruzione esemplare di un giallo destinato a restare senza soluzione, tra regia incisiva e valida sceneggiatura, dai dialoghi ben calibrati, potrebbe apparire fuori luogo lo “spiegone” conclusivo declamato dal sociologo, un superbo Flavio Bucci, nel discorrere col sempre scettico commissario.

Personalmente credo invece si vada a sostanziare, nella forma di una amara e lungimirante parabola, l’assunto di come l’immagine essenziale da coltivare dovrebbe essere quella che l’essere umano percepisce di sé, osservandosi allo specchio e confrontandosi coi propri simili, e non quella veicolata per il tramite dei mass media o, andando ai giorni nostri, dal web: “Perché le immagini di cui l’umanità si nutre non dovrebbero a loro volta nutrirsi di noi?” e, ancora, “Le immagini, come l’immaginazione, possono essere più forti della realtà”.

Non è un gioco di parole, come prospettato dal commissario, e il “lei crede?” offerto in risposta dal sociologo sul quale interviene il fermo immagine a dare il via ai titoli di coda, ci conduce all’attuale quotidianità, dove ogni cosa, o quasi, appare contestualizzata nella cornice di uno schermo dalla variabile misura, fino a circoscrivere una “realtà altra”, al cui interno “strisciano sulla superficie del pianeta degli insetti chiamati razza umana persi nel tempo, e persi nello spazio e nel significato”, citando il finale dell’adattamento per il grande schermo del musical di Richard O’ Brien The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975). 

Pubblicato su Diari di Cineclub N. 121- Novembre 2023

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