Ryan O’Neal (Wikipedia)

Lo scorso venerdì, 8 dicembre, ci ha lasciati l’attore statunitense Ryan O’Neal (Charles Patrick Ryan O’Neal all’anagrafe, Los Angeles, 1941). Il fisico prestante, frutto delle esperienze sportive, precedenti all’attività attoriale, nuoto e pugilato in particolare, e il volto di bell’aspetto, esprimente propensione ai buoni sentimenti, ben si univano ad uno stile recitativo volto all’essenzialità, cui erano estranei istrionismi o compiacimenti, esprimendosi con naturale efficacia tanto nel dramma che nella commedia.

Figlio dello sceneggiatore Charles O’Neal, e dell’attrice Patricia Callaghan, Ryan seguì le orme materne, frequentando la Munich American High School di Monaco, in Germania, dove i genitori si erano trasferiti, prendendo parte ad alcune serie televisive in qualità di stuntman.

Una volta rientrato in patria si dedicò allo sport, come su scritto, applicandosi alla recitazione senza particolare convinzione, per lo più partecipazioni rivolte al piccolo schermo (ad esempio il serial Peyton Place, 1964-1969), con un debutto cinematografico risalente al 1962, una parte ne Il ranch della violenza (This Rugged Land), di Arthur Hiller, che poi lo volle protagonista di Love Story nel 1970, accanto ad Ali MacGraw.

Per il ruolo del ricco studente di Harvard, nonché giocatore di hockey, Oliver  Barrett IV, che apprenderà dalla moglie Jennifer Cavalleri come Love means never having to say your’re sorry, O’Neal ottenne una nomination all’Oscar e andò a reinterpretare il personaggio otto anni più tardi in Oliver’s Story, diretto da John Korty.

Il regista che però riuscì  a cogliere e valorizzare ogni sfumatura recitativa di O’Neal fu certo Peter Bogdanovich, col quale l’attore girò  nel 1972, a fianco di Barbra Streisand, What’s Up, Doc? (Ma papà ti manda sola?), reinterpretazione, nella forma dell’omaggio critico, del genere della screwball comedy, rifacendosi in particolar modo allo scatenato Bringing Up Baby di Howard Hawks (Susanna!, 1938), e l’anno seguente Paper Moon, basato sul romanzo Addie Pray (Joe David Brown, 1971), uno sguardo sull’America sopraffatta dalla Grande Depressione, in vista delle nuove politiche sociali delineate da Roosevelt, attraverso la storia di Moses Pray (O’Neal), venditore ambulante di Bibbie, e della piccola Addie Loggins (Tatum O’Neal, figlia di Ryan, premiata con l’Oscar come Miglior Attrice Protagonista).

Sempre con Bogdanovich l’attore recitò in Nickelodeon (Vecchia America), 1976, mentre l’anno precedente era stato eccellente protagonista in Barry Lindon di Stanley Kubrick, tratto dal romanzo The Luck of Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray (1844), rivelandosi misurato e al contempo empatico nel dare corpo ed anima allo scapestrato Redmond Barry, intento, nell’Inghilterra del Settecento, ad una scaltra arrampicata sociale che lo vedrà poi, come Barry Lindon, al centro di varie avventure e disavventure.

Molto valide anche le prove recitative offerte nei seguenti Quell’ultimo ponte (A Bridge Too Far, Richard Attenborough, 1977) e Driver l’imprendibile (The Driver, Walter Hill, 1978), mentre dagli anni ’80 e fino al 2000 circa, tra alterne vicende sentimentali e problematiche di salute, i ruoli propriamente riusciti non sono stati certo numerosi, e comunque, almeno a mio avviso, non sempre paragonabili come intensità e naturalezza recitativa a quanto offerto in precedenza. 

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

In voga