
C’era una volta, in una città come tante altre, in un epoca passata che potrebbe anche divenire presente, una bella cagnolina di nome Bianca. Viveva insieme ad una donna, che aveva da poco messo al mondo un bambino, ma la loro tranquillità, come quella degli altri abitanti, veniva improvvisamente sconvolta da una serie di terrificanti eventi. Ecco che il cielo da azzurro diveniva grigio e nelle sue volte non volavano più gli uccellini, bensì aeroplani dal rombo sinistro, al pari di quello generato dalle camionette e dai carri armati lungo quelle strade dove poco prima i fanciulli giocavano spensierati.
Era in atto un rastrellamento ai danni di persone “colpevoli” di appartenere ad un’etnia diversa, ad opera di biechi individui adusi a celare la loro umanità sotto spesse divise, rendendo il loro sguardo cieco e refrattario alla pietà.
La povera Bianca ebbe appena il tempo di capire quanto stava accadendo, stordita da un colpo in testa, inferto col calcio di un fucile da un soldato entrato in casa con la forza. Una volta ripresi i sensi, vagando e fiutando in ogni dove, riusciva solo a percepire un lugubre silenzio, interrotto poi da un flebile vagito: un “cucciolo d’uomo” giaceva in strada, avvolto nelle fasce, il piccolino della sua compagna umana, affidato a chiunque se ne volesse prendere cura, evitandogli un destino comunque tragico.
E così il bambino entrava a far parte del branco di cani che dimorava sulla collina poco distante dalla città, dove la Natura sembrava avesse preso le distanze dalle brutture del mondo, divenendo nel corso di qualche anno in tutto e per tutto simile a loro, abbaiando ed ululando, anziché parlare.
Ma in seguito ad un furto di viveri ad opera del nostro e di un complice peloso, Skizzo, i militi individuavano il rifugio e conducevano lo strano essere in un campo di concentramento, dove andava a conoscere alcuni coetanei, addetti alle cucine e alle pulizie, fino a mettere in difficoltà col suo fare semplice e schietto il Caporale, l’Ufficiale, il Comandante, i feroci dobermann guidati da Luther, ma anche il tronfio Dittatore, giunto in loco ad esternare uno dei suoi “bei discorsi” all’umanità…
Presentato in anteprima al Sottodiciotto Film Festival Campus 2023, in proiezione nelle nostre sale dal 25 gennaio, in concomitanza con le iniziative previste per la Giornata della Memoria, Arf è un film d’animazione realizzato in collaborazione con Marguttastudios, Studio Panebarco, ShowLab, Digitoonz, con il sostegno proprio della Regione Emilia-Romagna attraverso Emilia-Romagna Film Commission e con il contributo selettivo del MIC.
La pellicola rappresenta, ad avviso di chi scrive, un concreto esempio di come l’animazione italiana sia in grado di realizzare delle opere dal forte impatto emozionale, tra visionarietà e suggestività poetica, in particolare una volta prese le distanze dalle produzioni europee e americane per seguire invece una via creativa del tutto autonoma.
Diretto da Simona Cornacchia e Anna Russo, quest’ultima anche autrice di soggetto e sceneggiatura, adattando il suo racconto Il baffo del Dittatore, Arf non nasconde certo la sua destinazione, in guisa di moderna favola, ad un pubblico prevalentemente infantile. Costituisce però anche un nitido promemoria per noi adulti, spesso dimentichi di sentimenti quali empatia e condivisione, anche, se non soprattutto, nel considerare il passato come terra straniera, perché se é vero, come scriveva Umberto Eco nella ormai famosa lettera al nipote, che quanto successo ieri aiuta a comprendere molte cose riscontrabili oggi, lo è altrettanto che “chi dimentica il proprio passato é costretto a riviverlo” (Primo Levi).
Nel visionare il film sono rimasto favorevolmente colpito dalla qualità dei disegni, che, nell’amalgamare elementi in 2D e 3D, riescono efficacemente a far intuire l’incombere dell’orrore proprio della guerra all’interno di una consueta ritualità esistenziale.
Considero infatti particolarmente riuscito il contrasto tra la densità morbida e “pastosa” degli sfondi ad acquarello, che vanno a rappresentare la realtà di una Natura accogliente e benigna, e la scelta invece di tratti più netti e spigolosi nel ritrarre l’ambiente cittadino, una volta che andrà a soffiare sulle macerie il vento della speranza perduta, avendo l’uomo rinnegato se stesso in nome di una presunta e fallace egemonia.
Ecco allora l’assecondare prospettive insolite nel dare visualizzazione all’elemento estraneo della violenza incombente, adusa a distorcere ogni visuale, in particolare una volta che i militi, non connotati, metaforicamente, da alcuna divisa specifica, vi avranno fatto irruzione.
Tratti rigidi ed essenziali anche nel raffigurare il campo di concentramento, dove la violenza è certo intuibile da qualche particolare rapidamente mostrato (la ferale catasta dei “pigiami a righe” e degli zoccoli di legno all’interno di un capannone).
La possibilità di un mondo diverso, dove sarebbe festa per tutta la terra fare la pace prima della guerra (Gianni Rodari, da Prima della pioggia), viene prospettata dallo sguardo “sovversivo”, limpido e primigenio, del “bambino selvaggio”, registrato al campo dallo stolido caporale come Arf, visto che è con tale verso che risponde alle sue domande.
Una sorta di moderno Candide, nella sua visione complessivamente pura nei confronti di quanto lo circonda, cui bastano pochi gesti, semplici e naturali nella loro propensione verso una disarmante gentilezza, per mutare il corso degli eventi.
Gli è infatti sufficiente lanciare una pallina per domare i dobermann guidati da Luther e un atteggiamento a dir poco disarmante nel mettere alla berlina, inconsapevolmente, il buffo omuncolo noto come Dittatore (le fattezze sono quelle di Adolf Hitler), che compensa con la megalomania e la presuntuosità la mancata crescita in altezza (spesso nel volersi atteggiare grandi si resta piccoli …).
Nel bel finale viene resa la portata allegorica relativa alla salvaguardia della purezza infantile, nei cui riguardi nessun sacrificio sarà mai inutile, perpetrando la fiducia in un futuro se non migliore quantomeno differente, in nome della condivisione e della diversità eguagliatrice.
Arf nella sua voluta semplicità narrativa, congiunta però, come scritto nel corso dell’articolo, ad una ricercatezza dell’immagine, prevalente sugli scarni dialoghi tanto da rimembrare l’espressività propria del cinema muto, riesce a trasmettere nei più piccoli l’idea di quanto sia importante innalzare le fondamenta della solidarietà, fino ad abbattere le sempre più spesse barriere dei calcolati oblii, costruite mattone su mattone da pressanti negazionismi e revisionismi.
Un assunto anche pedagogico, da moderna favola come scritto nel corso dell’articolo, che per i “grandi” assume la concretezza di una compartecipazione, ci si augura definitiva, rivolta alle vittime dei tanti, troppi, crimini perpetrati dall’uomo contro se stesso, passati e, purtroppo, tuttora presenti ed incombenti verso un futuro dove l’umanità tutta appare smarrita fra i meandri di un individualismo materiale ed ideologico.
“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere” (José Saramago).
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“Nasce dall’amore il sogno piccolino e abita felice dentro il cuore di un bambino: pace, pace per il mondo intero…” (Pace, canzone sui titoli di coda del film, musica di Antonio Canto, anche autore del testo con Simone Cristicchi, che la interpreta insieme a Beatrice, Isabella e Leonardo Canto)






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