
New York, fine anni ’50. Earle Slater (Robert Ryan), ex detenuto male in arnese, che vive mantenuto dalla compagna Lorry (Shelley Winters), si reca nell’albergo dove dimora David Burke (Ed Begley), i cui trascorsi da poliziotto sono oscurati da una mancata collaborazione con la Commissione Criminale riguardo determinati reati perpetrati da alcuni colleghi, il quale gli propone un “lavoro” a sua detta facile e dalla sicura resa economica, una rapina in una banca di un quartiere della città, che frutterà cinquantamila dollari, tutti in biglietti di piccolo taglio.
Burke ha poi previsto un terzo elemento, l’afroamericano Johnny Ingram (Harry Belafonte), cantante di night club, messo al tappeto dai debiti di gioco, deve più di settemila dollari ad un malavitoso, separato dalla moglie, da cui ha avuto una bambina, ma Slater, fortemente razzista, non accetta di buon grado tale collaborazione. Infatti inizialmente rifiuta di prendere parte al colpo, salvo poi tornare su i suoi passi, una volta considerata l’età che avanza e la continua attesa di una sistemazione definitiva.
Proprio le malcelate tensioni tra i due, a stento trattenute da Burke, faranno sì che la rapina, il cui andamento ha già dovuto fare i conti con gli accadimenti determinati dal caso, non possa avere l’esito sperato, tanto che per i tre losers la strada volgerà verso una direzione obbligata e tristemente parificatrice riguardo le scelte del destino.
Insolito, per l’epoca, ma suggestivo e coinvolgente connubio tra noir, heist movie e dramma, Odds Against Tomorrow è l’adattamento dell’omonimo romanzo di William P. McGivern ad opera di Abraham Polonsky, quest’ultimo scelto da Belafonte, produttore del film con la sua HarBel Productions, insieme al regista Robert Wise, ma che dovette celarsi sotto il nome di un altro romanziere, John O. Killens, essendo stato inserito nella lista nera del maccartismo, per essere poi “riabilitato” nel 1996 dalla Writers Guild of America.
Fin dalle prime sequenze, il camminare di Slater lungo la West Side Street della Grande Mela avvolta dal freddo invernale, fotografata in un livido bianco e nero da Joseph C. Brun (venne usata una pellicola ad infrarossi, che di fatto incrementa il senso di un’atmosfera “sospesa”), la narrazione denota un andamento realistico e dolente, rimarcato dalle note jazz della colonna sonora composta, arrangiata e diretta da John Lewis del Modern Jazz Quartet.
I tre personaggi principali si muovono all’interno di una scacchiera coreografata dalle rispettive caratteristiche psicologiche e comportamentali, così da evidenziarne gli atteggiamenti relazionali sia tra di loro che nei riguardi di quanti vi gravitano intorno, rendendone così intuibile il possibile comportamento nel corso della rapina e, soprattutto, le motivazioni che hanno condotto a metterla in atto.

L’ex poliziotto Burke appare come scosso da un fremito di rivalsa, verso la società in generale e l’istituzione di cui ha fatto parte nello specifico, permeato da un ambiguo senso d’idealismo; Slater, non più un giovanotto, cui Ryan offre l’aria sfatta propria di chi non può nascondere il proprio disadattamento sociale, nella scelta di auto esiliarsi ai margini del vivere civile, a partire dalla mancata ricerca di un lavoro, pagherà caro il suo gretto individualismo, che lo porterà, tra l’altro, a tradire la compagna Lorry, una splendida Shelley Winters, con una vicina di casa, personaggio cui Gloria Grahame conferisce un fascino sinistro, da moderna femme fatale; Johnny, infine, reso con naturalezza da Belafonte, tra rabbia repressa e sensi di colpa, può certo considerarsi il vero e proprio protagonista, il primo di colore in un noir, colui che si rende cartina di tornasole di sempre presenti storture sociali, manovrato da Burke e osteggiato da Slater quali due diverse facce di un razzismo latente sempre pronto a riemergere, che lui stesso d’altronde non intende superare, non vedendo di buon occhio la ricercata integrazione della ex consorte: “Il mondo è dei bianchi e noi siamo dei sopportati”.
La sceneggiatura dai dialoghi secchi e stringati lavora in simbiosi con la regia di Wise, attenta alle interpretazioni attoriali e a circoscrivere ambienti e personaggi all’interno di “una dimensione altra” dominata dalla sopraffazione e dall’egoismo, tra senso inconscio di disfatta e desiderio di venir fuori dalle secche di una quotidianità delimitata dai propri stessi comportamenti, fino ad arrivare all’autodistruzione ponendo comunque in essere una eguaglianza di fatto di fronte a quella strada sbarrata che attende tutti noi, senza più possibilità di alcuna scorciatoia, come metaforizzato nella bellissima ed agghiacciante sequenza finale.
Un film a mio avviso da recuperare, crudo, realistico, anche perché contiene i semi di quegli stilemi visivi e narrativi che vedremo svilupparsi con ancora maggiore compiutezza autoriale nei decenni successivi, traghettando il noir verso un’inedita dimensione cinematografica, che guarda sempre e comunque al passato per rinvenire congrui slanci verso il futuro.
Pubblicato su Diari di Cineclub N. 125- Marzo 2024– Foto di copertina: Belafonte, Begley, Ryan (Wikipedia)






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