
Lo scorso 21 luglio ci ha lasciati il regista cinematografico Salvatore Piscicelli (Pomigliano d’Arco, 1948), autore non sempre ricordato per come meriterebbe la sua scarna ma senza ombra di dubbio rilevante filmografia, innovativa nel proporre una rinnovata considerazione dell’idea di “napoletanità”, incline sì a riprendere gli stilemi narrativi propri della tradizione teatrale, come del melodramma popolare e della sceneggiata, ma provvedendo, da un punto vista figurativo, ad asciugarla da ogni eccesso manieristico volto al facile folclore, soppiantato da una messa in scena scabra, essenziale, quasi documentaristica.
Obiettivo principale il crudo realismo, trasfigurato da una visione del tutto personale al colmo di un certo distacco emotivo, rendendo comunque l’accadimento incline a materializzarsi con naturalezza di fronte alla macchina da presa, perlopiù fissa, affidandolo alla elaborazione dello sguardo degli spettatori.

Caratteristiche quelle descritte rinvenibili già nel suo bellissimo film d’esordio, Immacolata e Concetta- L’altra gelosia, sceneggiato insieme alla moglie Carla Apuzzo, che seguì all’ attività di critico cinematografico e a qualche incursione nel documentario, presentato, in Concorso, al 37mo Locarno Film Festival, dove conseguì il Premio Speciale della Giuria-Pardo d’Argento. La narrazione prende il via a Pomigliano d’Arco, provincia di Napoli, alla fine degli anni ’70. Immacolata (Ida Di Benedetto), sposata col muratore Pasquale (Lucio Allocca), lavora nella macelleria di cui è proprietaria.
Gli affari, però, non vanno per niente bene, tanto che per adempiere al pagamento di un debito nei confronti di Ciro Pappalardo (Tommaso Bianco), titolare di una catena di beccherie, non esita ad “offrirgli” una ragazza orfana, minorenne. Denunciata ed arrestata, Immacolata in carcere conoscerà Concetta (Marcella Michelangeli), bracciante agricola, finita dentro dopo aver sparato al marito della sua amante.

Tra le due donne nascerà un sentimento amoroso che andrà a protrarsi anche una volta fuori di galera, generando tutta una serie di maldicenze, cui porrà fine la stessa Immacolata, quando inviterà Concetta a vivere insieme nella sua casa, provocando lo scatto rabbioso di Pasquale, messo alla porta. La convivenza sembra procedere bene, per quanto tra le due sia Concetta, pur nella sua fragilità caratteriale, ad apparire molto più spontanea, diretta e vitale rispetto alla compagna, mentre quest’ultima risente ancora degli strascichi di una concezione familiare patriarcale, come andrà ad evidenziare una volta che la figlia Lucia si romperà una gamba, col rischio di divenire zoppa ove non si intervenisse chirurgicamente con un costoso intervento.
Immacolata, infatti, non esiterà a divenire presto l’amante di Ciro, considerandone la florida posizione economica, una situazione che Concetta accetterà, in nome “dell’amore per l’amore”, ma a prezzo di un sordo dolore dell’anima, che condurrà a drammatiche conseguenze…

Sia considerandone il periodo di realizzazione, sia accostandosi alla visione con lo sguardo odierno, Immacolata e Concetta- L’altra gelosia, realizzato in presa diretta in dialetto napoletano, non può che sorprendere, e per certi versi sconvolgere, nella desolata rappresentazione, lungi da qualsivoglia compiacimento pietistico, di una “dimensione altra”, una realtà disagiata, sottoproletaria, immobile, in cui vige un codice comportamentale del tutto personale.
Una condizione propria di ogni ambiente dove, anche considerando la progressiva disgregazione silente di qualsiasi valore umano cui fare riferimento, più che la possibilità di meditare su cosa sia bene e cosa sia male si è indotti ad assecondare una logica che vede le due entità confondere o sovrapporre i rispettivi confini, fino ad assumere contorni ambigui ed indefiniti, alla luce di un istinto di sopravvivenza dalla consistenza primordiale, come evidenziato dalla sequenza in cui Immacolata consegna senza alcun turbamento la minorenne al laido commerciante.
Sullo sfondo di questo “deserto delle anime” si staglia la storia d’amore tra due donne, considerata, sia in fase di sceneggiatura che nella trasposizione registica, nella “normalità” propria di ogni relazione, dalla nascita del sentimento alla sua deflagrazione passionale (le sequenze al riguardo sono piuttosto esplicite, ma volte ad una certa naturalità, mantenendosi distanti dalla pruderie voyeuristica), comprendendovi tutte quelle difficoltà che possono sorgere nell’ambito della rituale quotidianità, i consueti alti e bassi, comprensivi di variabili scosse di assestamento.
Di rilievo, almeno a parere di chi scrive, le caratterizzazioni psicologiche delle due protagoniste, ottimamente rese da Di Benedetto e Michelangeli. Quest’ultima in particolare, per quanto possa apparire a tratti piuttosto rigida, in particolare se confrontata con la naturalità immedesimativa della prima, attraverso la sua interpretazione rende palpabile la dolente constatazione di Concetta nei confronti di una diversità considerata dai più come scriminante e non quale valore aggiunto.
La sua gelosia sarà pronta a scattare non tanto, o non solo, per il tradimento fisico, scaturente piuttosto dalla consapevolezza che la compagna non abbia la forza e il coraggio di sostenere una libertà del tutto personale, affrancata dalle pastoie proprie di una “felicità” costruita sulla sabbia di un benessere prettamente materiale, determinato da tutto ciò che il danaro renda possibile comprare, sentimenti inclusi.
Si offre dunque rilevanza ad una relazione amorosa come tante, rendendo bene l’idea di come l’unica diversità da esibire sia quella resa possibile da ciascuno di noi, ovvero fare la differenza nel corso del proprio viaggio terreno avallando liberamente il proprio appagamento esistenziale, qualunque sia la nostra condizione sentimentale.
Il vostro amichevole cinefilo di quartiere, andando a concludere, suggerisce la visione di quest’opera prima così genuina e diretta, ma anche di tutte le pellicole dirette da Piscicelli (in particolare Le occasioni di Rosa, 1981, protagonista una splendida Marina Suma; Regina, 1987; Baby gang, 1992), forse discontinue nella resa complessiva, ma sempre pregne di una salda coerenza autoriale nel proporre con coraggio un cinema travalicante qualsivoglia logica “mercantile” o compiacimenti ammiccanti, libero da condizionamenti e imposizioni produttive, quindi concretamente e fieramente indipendente nel proporre una personale visione di una realtà ben nota al cineasta partenopeo, rimarcandone, sempre ad avviso di chi scrive, quel degrado morale e sentimentale dai contorni sempre più emergenziali, delimitato da un’idea consumistica del progresso, quindi avallante un’evoluzione prettamente materiale e strumentale, che tende comunque a volgere dal particolare all’universale.





Lascia un commento