(Movieplayer)

Si è reso necessario il passaggio di qualche giorno per conferire una forma compiuta alle tante impressioni, per lo più positive, scaturite dalla visione del film Beetlejuice Beetlejuice, diretto da Tim Burton su sceneggiatura di Alfred Gough e Miles Millar, titolo di apertura, fuori concorso, della 81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e sequel di quel  Beetlejuice (tralascio volutamente lo sciagurato sottotitolo italiano) che trentasei anni orsono andò a rivelare il tocco genuinamente visionario del cineasta di Burbank, al suo secondo lungometraggio.

Nel mescolare o, meglio, agitare, vari stilemi, andavano infatti a palesarsi i ruspanti prodromi di una energica poliedricità creativa, che andava a sconvolgere, non di poco, la consueta messa in scena relativa ai classici ghost movies, alternando l’horror al surreale e al grottesco. La ricetta prevedeva un’aura gotica alla Poe, omaggi al cinema espressionista tedesco, nonché alla casa di produzione inglese Hammer e al nostro Mario Bava, senza dimenticare il mondo dell’animazione e del fumetto.

All’interno di questa composita cornice andava poi a focalizzarsi l’elegia malinconica, a tratti ironica, del freak, il “diverso” che cerca di affermare la propria identità nell’ambito di una rigida ed istituzionalizzata normalità.  La precipua sensazione avvertita, già  dalle prime sequenze, è che Burton si sia finalmente ridestato, ci si augura definitivamente, dal sonno cui l’aveva costretto in questi ultimi anni, qualche felice eccezione a parte, la malvagia strega del “compitino da portare a termine”, andando a (ri)prendere coscienza della propria autorialità nell’ambito del mondo attuale, dove il fluire immaginifico vede la sua genuina fruibilità spesso ammorbata da uno standardizzato tecnicismo.

Ecco allora l’apertura, apparentemente identica al titolo precedente, offrire una panoramica sulla cittadina (immaginaria) di Winter River, sulle note dell’incisivo commento sonoro di  Danny Elfman, mentre scorrono i titoli di testa, ma con una modifica a mio avviso fondamentale.In quella circostanza, infatti,  il reale andava a confondersi con la fantasia, creando un parallelo, se non una burrascosa miscellanea, tra le due entità. L’ obiettivo passava con disinvoltura ad inquadrare  la ricostruzione del centro abitato nel plastico ad opera di Adam Maitland (Alec Baldwin), che insieme alla neo sposa Barbara (Geena Davis) si godeva un periodo di riposo nella loro villa sulla collina, poco prima di passare ambedue a “miglior vita”.

Ora invece la macchina da presa va a creare uno stacco improvviso, con un primo piano sul volto di Lydia (Winona Ryder): ex ragazza goth, è ormai una donna adulta, vedova e con una figlia adolescente, Astrid (Jenna Ortega). Ha venduto le sue potenzialità di medium ad un programma televisivo, Ghost House with Lydia Deetz, diretto dal compagno Rory (Justin Theroux), anche se le visioni del laido bioesorcista Betelgeuse (Michael Keaton) la perseguitano costantemente.

La triste evenienza della morte del padre Charles, scampato ad un disastro aereo per poi finire divorato da uno squalo, farà sì che la famiglia Deetz si riunisca in quel di Winter River. La vedova inconsolabile Delia (Catherine O’Hara), che ha perseguito, sembra con successo, il criminale intento di divenire un’affermata artista di arte concettuale, dedicherà una delle sue opere al defunto consorte, allestendo a lutto la dimora da lui tanto amata.

Lydia, invece, avrà il suo da fare sia con la citata figlia ribelle e miscredente nei confronti del soprannaturale, almeno fino a quando non conoscerà il coetaneo Jeremy (Lorenzo D’Agata), sia con l’ evocazione del tanto temuto spettro zuzzurellone, sulle cui tracce si è anche messa la “rediviva” moglie Delores (Monica Bellucci), a sua volta inseguita dal poliziotto Wolf Jackson (Willem Dafoe), da vivo attore di pellicole poliziesche, che ha pagato cara la sua mania per il realismo ad ogni costo…

Se nel film precedente, almeno a parere dello scrivente, Burton rinveniva in Lydia una sorta di alter ego, lo stesso avviene nel seguito: da emblema di una diversità che scoprirà incline a mettere in contatto terreno ed extra terreno, in nome di una gioiosa irriverenza  a farsi beffe di una irreggimentata convenzionalità, ora ha messo in vendita le sue doti, facendo mercimonio della sua vera essenza. Quest’ultima sarà poi recuperata in nome dell’ amore filiale, che per Burton è rappresentato dalla soddisfazione elargita ai propri fan in virtù di una creatività ritrovata, riacquistando la gioia del divertimento e il gusto della narrazione intesa ad assecondare il puro piacere di raccontare.

Nel tornare alle origini allestisce una messa in scena nuovamente figlia di uno scatenato Hellzapoppin’, più storie legate tra loro da un tenue filo logico, alimentate da un sussultorio susseguirsi di trovate visive che alternano nella loro visualizzazione computer graphics, sana artigianalità e animazione in stop-motion, fino a creare tutta una serie di sotto trame, a volte contorte, a volte orfane di una vera e propria conclusione, come credo sia stato già notato da molti.

Il Burton ritrovato sembra voler recuperare gli arretrati, procedendo per accumulo, a briglia sciolta, offrendoci comunque delle sequenze che credo potranno acquisire nel tempo una meritoria memorabilità, a partire da quella che vede Delores, una splendida Monica Bellucci, ironica ed autoironica, un po’ Sposa Cadavere, un po’ Sally, la bambola di pezza di The Nightmare Before Christmas,  “ricomporsi”  con l’aiuto di una graffatrice spara punti sulle note di Tragedy dei Bee Gees e mettersi alla ricerca del suo amato.

Sempre ai due coniugi è dedicata la sequenza in bianco e nero che narra il loro passato, omaggiando il citato Mario Bava nel ricreare l’atmosfera brumosa e onirica propria delle sue migliori realizzazioni. Rispetto ad altre opere di Burton ritengo sia maggiormente avvertibile il sentore del tempo che passa, la morte quale non sempre gradito intruso, quell’aldilà raffigurato a metà strada tra espressionismo tedesco e visionario guazzabuglio pop delle anime perse nella burocrazia di rigidi funzionari (splendida la sequenza in stile discomusic sul marciapiede dove i trapassati attendono il treno che li condurrà verso l’ignoto).

Non a caso, credo, il Day-O (Banana Boat Song) di belafontiana memoria non é più uno scatenato calypso ma un canto funebre, che accompagna le esequie di  Charles. La satira rivolta all’odierna società, influencer a filo di smartphone “ripresi” a loro volta in un video “definitivo”, si svolge ora nella coreografia di  un musical stile La La Land , mentre il finale sembra volgere verso un familismo spinto e zuccheroso, per poi esplodere in un sardonico horror a tinte forti, che combina ancora una volta tra di loro realtà e sogno, a rincorrersi nel reciproco gioco a rimpiattino.

Burton è dunque ritornato, con un’opera probabilmente imperfetta, che si perde a volte nei rivoli delle tante (troppe?) sotto trame, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo,  ma concretamente visionaria e anche piuttosto divertente una volta che si decida di stare al gioco che vede l’elemento soprannaturale incline ad insinuarsi nell’ordinarietà dell’incedere quotidiano, arrivando infine a lambire i confini, da sempre piuttosto labili, resi dall’inconscia fascinazione dell’ignoto.

Certo, al film avrebbe giovato una maggiore compattezza in fase di scrittura, ma i sussulti allucinanti di cui è disseminata la narrazione lasciano ben sperare, prospettando un’autorialità definitivamente matura, libera da qualsivoglia pastoia, capace di volgere uno sguardo, anche critico, al proprio passato, nel considerare ciò che si è stati alla luce di quello che ora si è,  rendendosi così foriero di una rinnovata genialità  guardando al futuro.

(Foto di copertina: Movieplayer)

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