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Presentato, in Concorso, all’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha conseguito una serie di Premi Collaterali*, Iddu. L’ultimo padrino va a completare, per stessa ammissione degli autori, un’ideale trilogia sulla regione Sicilia, iniziata con Salvo (2013) e proseguita con Sicilian Ghost Story (2017). Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, registi e sceneggiatori, “si ispirano liberamente a fatti accaduti”, come recita la didascalia iniziale, specificando però come “i personaggi che compaiono siano frutto della fantasia degli autori”, in quanto la realtà è da considerarsi “punto di partenza e non la destinazione”. La narrazione appare attraversata di toni ora sinistri, ora grotteschi, quando non da un umorismo straniante.

D’altronde in Sicilia “è il ridicolo ad uccidere, molto più delle pallottole”, a quanto afferma il viscido Catello Palumbo, interpretato con trasporto camaleontico da Toni Servillo, maschera comica tra Molière e il Grand Guignol (Pier Paolo Pasolini), una figura con cui Grassadonia e Piazza vanno a sostituire quella reale di Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, condannato a sei anni per traffico di droga (e assolto dall’accusa di associazione mafiosa), prendendo spunto per il soggetto dal famoso scambio di “pizzini” tra questi e il latitante Matteo Messina Denaro (reso ottimamente da Elio Germano, tra glacialità inquietante e ambiguità).

Il “preside”, come viene soprannominato per i suoi trascorsi scolastici, una volta tornato in libertà, siamo nel 2004, “da qualche parte in Sicilia”, dopo aver trascorso un bel po’ di anni nelle patrie galere, deve fare i conti con una fama ormai offuscata e vari debiti da pagare, come gli rammenta con acre sarcasmo la consorte Elvira (Betty Pedrazzi, magnifica nell’intonare un soppesato contrappunto ironico alle  varie vicende). Ma lui non dispera, già scaltro politico tra le file della Democrazia Cristiana, ex sindaco ed ex assessore, tronfio e mellifluo, sa certo come servirsi del potere, proprio e altrui, per far sì che ogni cosa possa risolversi a proprio vantaggio, attendendo paziente “un segno dal cielo”.

Elio Germano (Movieplayer)

Segno che si paleserà nell’ intervento dei Servizi Segreti, i cui funzionari andranno a chiedergli una collaborazione per la cattura del boss mafioso Matteo Messina Denaro, latitante da anni e a cui lo lega un rapporto di lunga amicizia, essendo stato suo padrino al battesimo. Dopo qualche studiata resistenza, Palumbo accetterà, imponendo però delle precise condizioni, ovvero che possa ritrovare la luce il suo progetto di un grande albergo, uno dei tanti ecomostri di cui l’autorità giudiziaria ha già ordinato l’abbattimento. Intanto “o pupu”, come viene soprannominato Denaro, che ha da poco perso il padre, di cui è andato a costituire negli anni l’ombra esecutiva, vive “come un sorcio”, rintanato in un covo segreto all’interno dell’abitazione di Lucia Russo (Barbora Bobulova), che gli fa da “segretaria”, gestendo il citato mezzo di comunicazione col  mondo esterno.

Lo scambio epistolare tra Palumbo e Denaro, colmo di reminiscenze e citazioni colte ben orchestrate, sarà idoneo a “riportare in vita” il malavitoso, anche con l’intermediazione della sorella Stefania (Antonia Truppo) nel gestire l’affare, ma in realtà a manovrare concretamente il tutto non sarà certo la “mafia padrinesca” del vecchio corso, ormai reperto museale come la statua  dell’Efebo di Selinunte che nel corso della narrazione vediamo al centro di varie vicende, ma un apparato ben più complesso, che si nutre di studiate connivenze per gestire e mantenere il potere, al pari degli squali, che, stando alle leggende marinare, pur feriti a morte, si dibattano alimentandosi delle loro stesse viscere.

Toni Servillo (Movieplayer, foto di Giulia Parlato© )

Grassadonia e Piazza, coadiuvati sinergicamente dalla plumbea fotografia di Luca Bigazzi e dalle musiche di Colapesce, mettono in scena un’atmosfera “sospesa” e danno vita ad una costruzione narrativa a mosaico, inserendo mano a mano varie tessere, come fa Denaro col puzzle raffigurante la Sicilia, anche se il pezzo destinato a completare l’opera, dato per perso o mancante,  non sarà certo inserito dal nostro, elargendo un’ aura alquanto inquietante al finale. In tal modo apprendiamo anche il passato dei due protagonisti principali, rimarcando nel caso del mafioso il rapporto con la figura paterna, sin dal primo atto violento (l’uccisione di una pecora, il fratello più grande non ne aveva il coraggio e alla sorella, pur disposta, non spettava, in quanto donna), nonché la sua illusione, infantile, e narcisistica, di essere tenutario e gestore di un grande potere, che in realtà esercita per interposta persona, “manovratore manovrato” alla bisogna.

Barbora Bobulova ed Elio Germano (Movieplayer, foto di Giulia Parlato©)

Gestione del potere che ovviamente interessa anche Catello nella sua conclamata amoralità, sul cui altare saranno sacrificati conoscenti e familiari acquisiti, forse rispetto al figlioccio è meno incupito nei riguardi della vita, ma sempre machiavellico nel riproporre i consueti schemi, dal sapore atavico, che andranno comunque a ritorcersi contro di lui, in nome della “morale dei tempi nuovi”, dove “non sempre chi ti toglie dalla  me*da lo fa per farti del bene” (Il mio nome è Nessuno, Tonino Valerii,1973). Alcuni passaggi narrativi sembrano mancare di equilibrio, fino a far avvertire un certo sentore di smarrimento nel coniugare grottesco, lampi onirici  e drammaticità, così come alcuni personaggi avrebbero meritato a mio avviso maggiore approfondimento (ad esempio l’ispettore Rita Mancuso, ben resa da Daniela Marra), ma, riprendendo in chiusura quanto scritto ad inizio articolo, gli innesti  tra tragico e ridicolo, realtà e ricostruzione di fantasia, credo possano definirsi riusciti.  

“Agitando non mescolando”, azzardo, gli stilemi propri del cinema di Rosi e Petri si dà vita ad un cinema d’impegno civile per certi versi inedito: Grassadonia e Piazza sfruttano l’immaginario servendosi di più generi per raccontare comunque il reale, circoscritto in una deformante stanza degli specchi dove tutto non è come sembra ma infine appare per quel che è.

Foto di copertina: Toni Servillo ed Elio Germano, Movieplayer, Giulia Parlato©

*Premio 1964 Pop Art Award | Cineteca della Calabria (Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, miglior attore Toni Servillo). Premio Soundtrack Stars | Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani e Free Event- Migliore colonna sonora: Joker: Folie À Deux per Le Musiche Di Hildur Guònadottir; Iddu per le musiche di Colapesce. Premio Rotella | Fondazione Mimmo Rotella.

4 risposte a “Iddu. L’ultimo padrino”

  1. Toni Servillo, da solo riesce a rendere grande un film. Grazie per la recensione 🐈‍⬛♥️

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    1. Avatar Antonio Falcone
      Antonio Falcone

      Anche Germano non scherza al riguardo. Entrambi con le loro interpretazioni rimediano a qualche disomogeneità presente nel film, almeno a mio avviso. Grazie a te, un saluto.

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      1. Hai ragione anche lui è un attore che mi piace anche per il suo impegno per i diritti umani e sociali 🐈‍⬛♥️

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  2. […] americano (Pupi Avati), Le Déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta (Gianluca Jodice), Iddu – L’ultimo padrino (Fabio Grassadonia e Antonio Piazza), Napoli – New York (Gabriele Salvatores) e Vermiglio (Maura […]

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