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A tutte le lettrici e a tutti i lettori di Sunset Boulevard cari e lieti auguri di Buon Natale dal vostro amichevole cinefilo di quartiere, possano i cuori di ognuno essere sgombri da qualsivoglia affanno e rinascere a nuova vita come accadde al buon vecchio Scrooge di dickensiana memoria tanti anni fa…

Londra, 1843, vigilia di Natale, nell’approssimarsi della sera. Luccicano le vetrine dei negozi, colme di ogni ben di Dio le beccherie, ma certamente non tutti potranno permettersi grandi spese, cercando comunque di celebrare dignitosamente la Notte Santa insieme ai propri cari, rendendo grazie per quanto hanno a disposizione. Per gli indigenti, quanti sopravvivono lasciandosi andare tra gli stenti dopo aver affrontato le avversità della vita, ci sono sempre gli appositi istituti quando non il carcere, come sentenzia l’anziano uomo d’affari Ebenezer Scrooge (Alastair Sim) nei riguardi dei rappresentanti di un’istituzione benefica che sono entrati nel suo ufficio a chiedere una donazione, senza ottenere nulla.

Proprio nel Natale di sette anni orsono il socio Jacob Marley lasciava la vita terrena, ma l’insegna reca ancora il suo nome, probabilmente costava troppo cambiarla. Scrooge è infatti fortemente attaccato al denaro, ne sa qualcosa il segretario Bob Cratchit (Mervyn Johns),  che va avanti con un misero stipendio di 15 scellini a settimana con cui mantenere la famiglia, moglie e 6 figli, tra cui il piccolo Tiny Tim (Glyn Dearman), malato e storpio.  Intento alla contabilità, si riscalda le mani alla fiamma della candela, visto che il principale lesina sul carbone. Per l’acido taccagno le festività natalizie non sono altro che una perdita di tempo, sottratto al lavoro e quindi al guadagno, “si diventa di un anno più vecchi senza essere di un’ora più ricchi”.

La sua ruvidità caratteriale, tra un “ah, bubbole!” e l’altro si esterna anche nei confronti del nipote Fred (Brian Worth), il quale si vede sbattere in faccia il diniego per l’invito a festeggiare insieme il Natale. Chiusa l’attività, concedendo a Cratchit un giorno di riposo, ovviamente a malincuore, e consumato un parco pasto all’osteria, Scrooge s’incammina verso la propria abitazione, ma arrivato al portone d’ingresso gli sembra di scorgere nel batacchio il volto di Marley, il cui spettro si rivelerà poco dopo, mostrando all’ex socio le pesanti catene che dovrà portare per tutta l’eternità, forgiate anello dopo anello dalla sua bramosia di denaro e mancanza di commiserazione verso i meno fortunati, le stesse che toccheranno in dote ad Ebenezer, a meno che non si ravveda, dopo aver ricevuto la visita di tre spiriti, in rappresentanza del Natale passato, presente e futuro…

Il racconto Canto di Natale (A Christmas Carol. In Prose. Being a Ghost Story of Christmas), scritto da Charles Dickens nel 1843 (inserito nella raccolta di racconti The Christmas Book), è stato oggetto di vari adattamenti cinematografici, dal primo Scrooge, or, Marley’s Ghost, pellicola muta britannica del 1901 diretto da Walter R. Booth all’ultimo Scrooge: A Christmas Carol, film d’animazione del 2022 per la regia di Stephen Donnelly (remake del musical Scrooge, 1970, Ronald Neame), ma la versione del 1951 qui in analisi può ritenersi, mi unisco alla voce di molti, la migliore, in primo luogo per l’interpretazione di  Scrooge offerta da Alastair Sim.

L’attore infatti riesce a farne percepire con toccante immedesimazione il mutamento caratteriale, dalla grettezza iniziale alla gioia del rinsavimento finale, quel represso bisogno di dare e ricevere affetto che alla fine verrà fuori e lo farà sentire in pace con se stesso e con il resto del mondo, nella acquisita consapevolezza di poter essere un uomo migliore. In secondo luogo appare certo riuscito l’adattamento messo in atto dallo sceneggiatore Noel Langley, il quale, rispettando l’impianto del racconto d’origine, ampliò le caratteristiche comportamentali e psicologiche proprie di alcuni personaggi, come Fran (Carol Marsh), la sorella di Ebenezer, introducendone anche di nuovi, così da rimarcare le motivazioni che spinsero il futuro uomo d’affari a relegarsi ai margini del vivere sociale, fino a valutare ogni rapporto umano sulla base della convenienza e del profitto.

La regia di Brian Desmond Hurst riesce poi a visualizzare, con l’ausilio della cupa fotografia in bianco e nero di C.M. Pennington-Richards, delle essenziali ma curate scenografie (Ralph W. Brinton), al pari degli effetti speciali, e della colonna sonora opera di Richard Addinsell, che alterna melodie originali e canti natalizi tradizionali, quella consistenza visiva delineata da Dickens nella pagina scritta, rendendoci tangibile ad ogni inquadratura di luoghi e persone gioia e tristezza, angoscia e speranza. Lo scrittore inglese aveva ben intuito le conseguenze che avrebbe portato un progresso fine a se stesso, privo di un’evoluzione propriamente umana, espressione di un capitalismo che persegue la ricchezza per la ricchezza, pensando nient’altro che al proprio personale tornaconto, non chiedendo di meglio dell’avere persone alla propria mercé, da dominare e sfruttare.

Ecco allora la contrapposizione tra una realtà sociale disagiata e quella di chi, considerando la posizione privilegiata, quelle ambasce  potrebbe alleviare se non risolvere: emblematica, nel film come nel libro, la drammatica immagine di un bimbo ed una bimba in condizioni precarie, a simboleggiare i mali eterni dell’ignoranza e della miseria, “figli dell’uomo, si stringono a me per accusare i loro genitori”, a quanto spiega lo Spirito del Natale Presente ad un atterrito Scrooge. Il Natale viene quindi ricondotto alla sua portata più intima e sincera, anche infantile se vogliamo, non solo, o non tanto, una festa contornata da illusorie scenografie e melassa in offerta speciale, bensì una disposizione dello spirito, un’occasione per riflettere su se stessi, sul proprio ruolo esistenziale, come singoli e nei rapporti col prossimo.

Il tempo non è più un’entità astratta, ma l’elemento essenziale perché si possa ritrovare il proprio equilibrio interiore, ricordando ciò che si è stati, meditando su quel che ora si è, lanciando uno sguardo al futuro per come si potrà essere, ricordando quanto la vita di un uomo sia legata ad altre vite nel conferire un’inedita svolta al proprio destino. Un film da recuperare, considerando come riesca a mantenere vivida quella portata di racconto morale proprio dell’opera originaria, così da rammentarci quel dono gratuito offertoci dalla nostra stessa esistenza e della possibilità di condividerla con quanti ci sono vicino, nella comune condizione di esseri umani intenti a percorrere identico cammino.

Immagine di copertina: John Leech, Public domain, da Wikimedia Commons

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