David Lynch( foto di Alan Light, CC BY 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by/2.0 via Wikimedia Commons)

Autore di un cinema profondo ed estremamente personale nell’esprimere una straordinaria creatività, al contempo visionaria e rigorosa, per il tramite delle più svariate forme linguistiche, David Lynch ci ha lasciato ieri, giovedì 16 gennaio. Il vuoto conseguente alla sua perdita, come rimarcato sui social dai familiari nel dare la notizia del decesso, potrà essere colmato ricordandone la figura di  artista totale (cineasta, pittore, designer, compositore, autore di videoclip e spot pubblicitari, fumettista), la geniale intuitività nel condurre il cinema verso vette di ricchezza espressiva che sembravano perdute e che tanto più oggi, in tempi di imperante omologazione, risultano preziose, considerandone la fascinazione scaturente dal fluire di differenti livelli rappresentativi.

I suoi inizi lavorativi nel campo della pittura ne hanno certo influenzato l’idea di immagine in movimento, volta ad evocare oggettivamente un senso di mistero passibile di più interpretazioni, aprendo le finestre dell’inconscio su di una realtà che da esso sarebbe risultata trasmutata nel protendere verso il confine del conoscibile, mescolando desideri, rimembranze, immaginazione. Lynch nacque a Missoula (Montana) nel 1946 e, come si apprende dall’Enciclopedia del Cinema Treccani, la sua infanzia, essendo il padre ricercatore per il Ministero dell’Agricoltura, fu interessata da spostamenti in varie località montane degli Stati Uniti.

Libra films, Public domain, da Wikimedia Commons

La passione per la pittura scaturì nei primi anni del liceo, spingendolo, dopo una deludente trasferta europea, a trasferirsi a Philadelphia, così da iscriversi alla Pennsylvania Academy of Fine Arts, pagandosi gli studi con una serie di lavori saltuari. Una volta che il suo stile pittorico andò maturando, nacque in Lynch il desiderio di una elaborazione che potesse creare un’idea di dinamicità, fino ad arrivare alla confluenza con la Settima Arte nel dare vita ai cosiddetti films painting, pitture in movimento che si concretizzarono nei cortometraggi Six Figures (1967), The Alphabet (1968), Grandmother (1970), offrendo così spazio ad una progressiva forma di sperimentazione cinematografica, che trovò sfogo nel suo lungometraggio d’esordio, Eraserhead, 1977, conseguente alla frequentazione  dei corsi  del Center for Advanced Film Studies di Los Angeles, a partire dal 1971.

 Un film quello appena citato che ebbe varie difficoltà produttive, come l’esaurimento del finanziamento ottenuto e il difficoltoso ricorso all’autoproduzione. Dopo sei anni di lavorazione, ecco il materializzarsi sullo schermo, per stessa definizione dell’autore, di “un sogno di cose oscure e ingarbugliate”, rivelando come il cinema fosse il mezzo più idoneo a rendere tangibile quello che la pittura lascia intuire, ovvero la rappresentazione di differenti realtà e dei loro altrettanto diversi livelli conoscitivi, dall’astrazione alla materialità. Tre anni dopo Mel Brooks nelle vesti di produttore lo chiamò per dirigere The Elephant Man, adattamento dei libri The Elephant Man and Other Reminiscences del dottor Frederick Treves e The Elephant Man: A Study in Human Dignity di Ashley Montagu, che narravano la storia di Joseph Merrick, affetto da deformità congenita, vissuto in età vittoriana.

(MyMovies)

Il film ebbe un notevole successo di pubblico ed anche di critica, conseguendo, tra l’altro, otto candidature agli Oscar. Personalmente l’opera citata mi è rimasta impressa in particolar modo per come Lynch scelse di presentarci il protagonista, interpretato da John Hurt, reso attraverso gli sguardi e le conseguenti parole malevole dei “sepolcri imbiancati”, i rappresentanti della “buona società” del tempo, ponendo così in evidenza dove trovi buon albergo la cosiddetta “mostruosità”, celata dal velo ipocrita della normalità istituzionalizzata. Nel 1984, su spinta del produttore  Dino De Laurentiis, Lynch diede forma filmica al romanzo di fantascienza, il primo di sei, Dune, scritto nel 1965 da Frank Herbert, che però risentì dei tagli subiti in sede di montaggio (la versione originaria aveva una durata di 4 ore), gravanti su una trama già di per sé complessa.

 Rimane comunque indiscutibile il fascino visivo reso nella visualizzazione di “un mondo altro”, dove lo sguardo può indagare a suo piacimento all’interno degli immaginifici piani narrativi. Due anni dopo De Laurentiis appoggiò la produzione di Blue Velvet, un suggestivo  noir la cui costruzione narrativa e visiva si palesa come una fune tesa tra realtà e sogno, fino a creare, rievocando quanto avvertito ai tempi della visione, una particolare astrazione intesa a svelare le ambiguità proprie del vivere sociale, instaurando un palpabile senso di turbamento, avallato dalla colonna sonora di Angelo Badalamenti, che da qui inizierà la sua collaborazione col regista.

Sono sensazioni quelle descritte avvertibili, tra inquietudine e senso del soprannaturale, nonché una certa ironia grottesca, anche nella innovativa serie televisiva Twin Peaks, ideata da Lynch e Mark Frost, trasmessa in due stagioni sulla rete ABC (8 aprile 1990- 10 giugno 1991), ormai entrata nell’immaginario collettivo, di cui venne girato nel 1992 un prequel cinematografico, Twin Peaks: Fire Walk with Me. Del 2017 è invece la cosiddetta “terza serie”, trasmessa in 18 episodi dalla rete via cavo Showtime, sempre scritta da  Lynch e Mark Frost, per la regia del primo. Riprendendo il percorso cinematografico di Lynch, a Blue Velvet seguì nel 1990 Wild at Heart (Cuore selvaggio), ispirato all’omonimo romanzo di Barry Gifford, vincitore della Palma d’Oro al 43mo Festival di Cannes, che rimodula i canoni del road movie in forma di grottesca fiaba nera e il cui convulso ritmo narrativo è esaltato dal montaggio di  Duwayne Dunham e dalle note della colonna sonora del citato Badalamenti.

(MyMovies)

Il successivo Lost Highway (Strade perdute, 1996) mette in atto una sorta di destrutturazione del genere noir, con un andamento narrativo sempre frenetico, che tiene a debita distanza logica e razionalità, mentre tre anni più tardi sarà una sorpresa The Straight Story, incentrato sulla storia vera del contadino 73enne Alvin Straight (interpretato da Richard Farnsworth, al suo ultimo film), che nel 1994 si mise in  viaggio dall’Iowa al Wisconsin, circa 400 km, a bordo di un mezzo agricolo per far visita al fratello colpito da un infarto. Qui Lynch si distacca momentaneamente dalla visionarietà e adotta un ritmo ponderato, offrendo comunque il suo enigmatico sguardo sul mondo in virtù della particolarità dei personaggi che Alvin andrà ad incontrare lungo il cammino.

Mulholland Drive, 2001, venne concepito in origine come episodio pilota di una serie televisiva, ma, svanita la possibilità di realizzare quest’ultima, causa diniego dei dirigenti della tv, il regista si adoperò per girare il finale, realizzando così un lungometraggio la cui visualizzazione offre la possibilità di diverse interpretazioni relativamente alla magia propria del cinema, mettendo in atto, sullo sfondo di Hollywood, l’ambiguità di un gioco a rimpiattino tra la realtà dell’immaginazione e l’immaginazione della realtà. Il film conseguì il Prix de la mise en scène al 54mo Festival di Cannes, ex aequo con Joel Coen per L’uomo che non c’era.

(MyMovies)

Il descritto gioco a rimpiattino andrà a rivestirsi di una estrema visionarietà nell’ultimo lavoro cinematografico di Lynch, presentato fuori concorso alla 63ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove il regista ricevette il Leone d’Oro alla Carriera,  INLAND EMPIRE, 2006, ambientato a Los Angeles e girato interamente, unico della sua filmografia, in digitale. Un susseguirsi d’immagini senza soluzione di continuità, che riporta all’idea del cinema in sé e per sé considerato, assolutizzando il rifiuto proprio dell’autore inerente alla logica commerciale del “pronto cuoci”,  in nome di una esperienza visiva permissiva di differenti interpretazioni e fonte di emozionalità anche divisive, richiedendo la partecipazione attiva degli spettatori, preservandoli dall’indifferenza o dall’ acriticità, che è poi ad avviso dello scrivente una tra le note più ricorrenti della filmografia lynchiana, nei cui riguardi non possiamo che essere eternamente grati.

Immagine di copertina: David Lynch a Mosca (VGIK) Sasha Kargaltsev, Concessione di licenza CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Una replica a “David Lynch (1946-2025)”

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